Le cellule della voce

Le cellule della voce

Per la mostra “Fantasmagoria Callas” il compositore Alvin Curran, fin dagli anni Settanta uno dei nomi più importanti dell’avanguardia, ha rielaborato la voce di Maria Callas per realizzare un’installazione sonora

alan curran

La prima opera che si incontra nella mostra “Fantasmagoria Callas” è un’installazione del compositore Alvin Curran dal titolo Una voce poco fa. I visitatori entrano in una stanza insonorizzata e vengono avvolti dalla voce di Maria Callas, che Curran ha rielaborato digitalmente, dilatando, frammentando, stratificando piccole cellule sonore estratte dalle tante leggendarie registrazioni del soprano. Un lavoro che permette di entrare ancora di più nell’anima dell’interpretazione callassiana, forse perché realizzato da un musicista d’avanguardia che ha sempre guardato l’opera con un certo distacco.

 

MP Qual è il suo rapporto con l’opera?

AC Sono cresciuto in una famiglia musicale, ma i miei non andavano all’opera, al massimo la ascoltavano alla radio. Mio padre era un musicista polivalente, suonava il violino, il trombone ed era un tenore del coro della sinagoga, ma cantava anche molta musica popolare che all’epoca, stiamo parlando degli anni Quaranta – io sono nato nel ‘38 – comprendeva il repertorio che in inglese si definisce light classical, vale a dire canzoni popolari cantate con la voce impostata. Era prassi che ogni bambino suonasse almeno il pianoforte, era una regola fissa, un po’ come leggere la Bibbia. Anch’io cominciai a prendere lezioni verso i cinque anni, ma la prima volta che sono andato all’opera, al Metropolitan, ne avrò avuti almeno diciotto: si dava Verdi, un’opera giovanile.

 

MP E che impressione ebbe?

AC Ricordo che non avevo capito nulla. Mi aspettavo un’esperienza indimenticabile e invece era stata un’esperienza da dimenticare. L’opera era lontana anni luce da qualunque esperienza che in quel momento per me poteva essere significativa. Per esempio in quel periodo era uscito West Side Story di Bernstein, ed era musica che mi sembrava parlasse al pubblico molto più direttamente rispetto a Verdi. Da allora l’opera è sempre rimasta fuori dalle mie preferenze musicali e dai miei interessi culturali.

 

MP Eppure non mancavano certo esperienze vocali nel mondo delle avanguardie.

AC Tutto il contrario: artisti come Meredith Monk, John LaBarbera, Diamanda Galás sono entrati nel nostro mondo con una forza straordinaria. Io stesso cantavo nei miei primi lavori a Roma: suonavo diversi strumenti e cantavo in falsetto o con la tecnica dell’overtone. Insomma, la voce era presente nella mia vita come elemento sonoro, ma non come si intende di solito il canto nei conservatori, ovvero quella tradizione che va dal Barocco fino al tardo Ottocento. Il mio mondo è paradossalmente più vicino a quello di Monteverdi, o persino precedente, come Hildegard von Bingen.

 

MP E come si colloca Maria Callas in questo quadro?

AC Lavorando per questa Mostra ho avuto l’impressione che il mondo dell’opera e Maria Callas siano in realtà molto diversi. Non c’è dubbio che la Callas rappresenti anche l’apice di una tradizione, ed è un dato di fatto che lei abbia sviluppato una capacità tecnica incredibile. Ma nella sua voce c’è anche qualcos’altro, che non è facilmente spiegabile e che può trasportare chiunque in luoghi sconosciuti, mai visitati. Ci sono stati anche grandi pianisti, violinisti e così via con questa capacità, ma la voce, non bisogna dimenticarlo, è il nostro strumento musicale principale: ogni essere umano può cantare, anche se non è musicista. Per questo con lei è diverso.

 

MP Come è stato immergersi nelle registrazioni di Maria Callas?

AC È stata un’esperienza incredibile: la sua voce mi ha colpito innanzitutto come materia prima. Specialmente agli inizi della mia carriera, ho sempre inteso la musica come ritorno alla natura, tant’è che ho sempre lavorato sui suoni della vita e dell’ambiente alla ricerca di nuove fonti sonore da usare come strumenti musicali. La voce della Callas rientra perfettamente in questo concetto: è una voce che esiste come le campane delle chiese, il canto degli uccelli, il suono del vento o dell’acqua di un ruscello. Per me è una fonte infinita di ispirazione sonora.

 

MP Dal punto di vista pratico, in cosa è consistito il suo lavoro?

AC Sono entrato nelle registrazioni della Callas quasi da biologo musicale, cercando di estrarre delle molecole, delle cellule viventi di questa anima che è la voce della Callas. Poi ho cominciato a lavorare con questi piccoli elementi. Poteva trattarsi, non so, di due o tre note, di un trillo, di un piccolo glissando, cose di poco conto. Non mi interessava tanto quello che lei cantava, ma le sue pure vibrazioni: microfrasi di pochi secondi con cui ho costruito dei loop, magari aumentando la durata. Insomma si tratta di manipolazioni, realizzate sempre in maniera rispettosa, ma con l’intenzione di produrre oggetti sonori nuovi. È come dipingere con il suono e, in questo senso, i colori della Callas sono insuperabili.

 

MP Mi viene in mente quella che è stata la Callas dell’avanguardia: Cathy Berberian, che lei ha conosciuto. Entrambe queste artiste dicono molto su quanto certe rivoluzioni siano possibili solo con l’interprete giusto.

AC Cathy Berberian, che io ho avuto la fortuna di conoscere bene, interpretava la musica dal nulla, ovvero ricreava la voce umana partendo dalla fisicità della voce stessa. Bisogna ricordare che, dagli anni Sessanta in poi, il pensiero ricorrente era quello di usare la voce umana come un qualsiasi altro strumento musicale, cercando di aumentare le sue possibilità. Cathy è un esempio di una voce che è partita sì da un background completamente classico, anche per via del suo rapporto con Luciano Berio, ma che è diventata poi l’espressione di una vocalità pura: una voce senza storia. La Callas invece una storia ce l’ha sempre: la sua voce rimane per noi la connessione più illuminante con il repertorio dell’Ottocento.

 

MP Si parla spesso della teatralità della voce di Maria Callas. Lei cosa ne pensa?

AC Non è un aspetto di cui mi sono interessato. Per me il rapporto con la Callas è tutto nell’ascolto. Certo ci sono dei momenti in cui è difficile non immaginarsi una situazione drammatica, quando canta un Mi o un Fa acutissimi, o al contrario quando emette la sua nota più bassa, che sarebbe un Re bemolle, si sente chiaramente uno stato emotivo particolare: il personaggio lì sta morendo, o al contrario sta ammazzando qualcuno, o è in uno stato di disperazione. Questi momenti li riconosco, ma nel mio lavoro devo cercare di non vederli. Anche dal punto di vista testuale, non è mai quello che dice che mi interessa: normalmente prendo la vocale finale di una parola, può essere una A, una O, una U, ed è quella lunghissima nota sostenuta fino alla fine che considero, non la parola che la precede.

 

MP Ma quindi cos’è la teatralità in musica secondo lei?

AC È molto semplice: è l’artista che, mentre sta suonando, ha la capacità di coinvolgere il pubblico in diverse esperienze emozionali. Questo può avvenire anche grazie alle più ridicole tendenze attuali in musica, per esempio quando ci si serve di rumori fortissimi come se fossero un linguaggio in sé. Io sono più vicino alla cultura delle ripetizioni infinite, come nella musica minimale americana: loop che non iniziano e non finiscono mai. È anche un modo per accompagnare diversi stati di estasi, provocati da credi religiosi, spirituali, o anche dalle droghe. In fondo il tentativo di uscire dalla realtà per entrare in uno stato sconosciuto, dove il tempo e lo spazio si fermano e non esistono più, è una costante della musica di ogni tempo. È un aspetto presente fin da quando l’essere umano ha capito che poteva creare altri mondi attraverso il suono, estendendo la sua realtà mediante strumenti musicali, come i primi tamburi o i flauti fatti di ossa umane o animali, che risalgono a circa 40 mila anni fa.

Mattia Palma