Cinque artisti per Maria Callas

Cinque artisti per Maria Callas

La mostra “Fantasmagoria Callas”, curata da Francesco Stocchi, raccoglie le voci di cinque creativi di oggi per riflettere sull’eredità di Maria Callas nel centenario della sua nascita

callas intervista stocchi

Quest’anno, per le celebrazioni del centenario di Maria Callas, la Scala ha pensato a un omaggio diverso dal solito: una mostra che potesse evocare il mito di Maria Callas, più che raccontarlo dal punto di vista storico come si è fatto in altre occasioni. Per farlo, la direttrice del Museo Teatrale Donatella Brunazzi ha coinvolto Francesco Stocchi, recentemente nominato Direttore Artistico del Maxxi di Roma. Ne è nata “Fantasmagoria Callas”, in cui cinque creativi del panorama artistico contemporaneo sono stati chiamati a riflettere su senso e significato della vicenda di Maria Callas, dal punto di vista sia artistico sia umano. Si tratta di Giorgio Armani, Alvin Curran, Latifa Echakhch, Mario Martone e Francesco Vezzoli, insieme in un percorso espositivo pensato da Margherita Palli e che Stocchi definisce “una partitura a più autori”.

 

MP Maria Callas dal mondo dell’opera al mondo dell’arte. Com’è avvenuto secondo lei questo passaggio che ha trasformato l’idolo dei melomani nell’idolo degli artisti? Gli esempi non si contano: da Andy Warhol a Marina Abramović, fino a Dominique Gonzalez-Foerster l’anno scorso alla Bourse di Parigi e ora gli artisti di questa mostra.

FS Quella di Maria Callas è una figura di tale intensità che si presta al feticcio e alla mitizzazione già di suo. C’è una sua frase significativa: “Io sono una donna e sono un’artista seria”, detto in modo assertivo, deciso. Penso che questo interesse da parte di artisti visivi delle ultime generazioni sia legato all’evoluzione del termine diva. La diva, lo sappiamo, è un termine che nell’Ottocento indicava la grande cantante lirica. Nel secolo scorso si è poi evoluto in ambito popolare, diventando anche più ambiguo. Penso che gli artisti abbiano iniziato a lavorare su questa molteplicità, sulla ricchezza di un termine che non è più unicamente celebrativo.

 

MP Ci spieghi il titolo della mostra, “Fantasmagoria Callas”.

FS Questa mostra intende presentare la pluralità di tracce e la ricchezza insite in un personaggio unico. Sappiamo che la fantasmagoria indica una tecnica scenico-teatrale molto sofisticata per mostrare il soprannaturale, il fantastico. In fantasmagoria si racchiudono quindi varie voci, a volte ricche anche nella loro dissonanza l’una rispetto all’altra ma che, unite insieme, raccolgono la complessità di una figura che è raro trovare. Se ci pensiamo, è una complessità che trova un raccordo tra vita professionale e vita privata: nel caso di Maria Callas immagino che sia la prima ad aver ispirato la seconda. Poi intorno ai 40 anni Callas cambia radicalmente e, nella sua vita privata, è l’inizio della fine. Mi piace pensare che potesse esserci una confusione su dove fosse il suo palcoscenico, talmente era totalizzante l’immedesimazione che sapeva esprimere in scena.

 

MP In effetti nelle loro opere gli artisti si sono molto ispirati alla vita personale di Maria Callas.

FS Per molti artisti l’arte è una modalità di esprimere ciò che non riescono a esprimere altrimenti. Quindi per loro è un modo per esternare la loro sfera intima. Forse per un gioco di specchi ritrovano in Callas il movimento inverso, il passaggio dal palcoscenico alla sua vita personale. Questo lo trovo interessante.

 

MP Ci racconti in che modo i singoli artisti hanno interpretato il personaggio di Maria Callas.

FS La mostra è divisa in cinque atti, ognuno dei quali si riassume nel linguaggio proprio di ogni artista. Si comincia con il compositore Alvin Curran, quindi con la musica, che ha creato una tessitura sonora che abbiamo ambientato in uno spazio buio. Si tratta di un’esperienza immersiva per il pubblico, quando si entra ci si ritrova avvolti dalla voce elaborata della Callas, attraverso registrazioni originali. Si prosegue con un’installazione di Latifa Echakhch, un’artista che solitamente lavora sulla memoria, sul lascito attraverso del materiale o dei dettagli. La composizione è fatta di vetri e perle i cui colori hanno delle connotazioni simboliche. Il risultato è una rievocazione fisica, o non del tutto, sembra di trovarsi di fronte a un fantasma o a un’apparizione, che richiama la figura di Maria Callas. Il percorso giunge poi a un piccolo cinema, dove si può assistere a un cortometraggio girato da Mario Martone, molto denso e ricco visivamente, che è una rievocazione di un episodio che riguarda Maria Callas, attraverso cui si evocano le fragilità e l’intimo della sua figura. Il quarto atto è affidato a Francesco Vezzoli, un artista che si è sempre interessato all’immagine pubblica dei personaggi, al divismo, come anche alla televisione; può essere considerato un parallelo dell’opera del Settecento. L’opera che esponiamo è un lavoro giovanile di Vezzoli, una sorta di racconto per immagini della vita di Maria Callas: abbiamo 63 Callas ricamate in varie pose che compongono un universo ricco di sguardi, di smorfie, di gesti. Può ricordare i racconti che si facevano nel tardo Medioevo, si pensi agli affreschi che raccontavano le vite dei santi, come per San Francesco ad Assisi. L’ultimo atto è affidato a Giorgio Armani, un abito realizzato per la collezione Privé del 2021, presentato come se fosse una scultura. È un omaggio a Milano, perché è proprio Milano il legame tra Giorgio Armani e Maria Callas: un legame sociale e di contesto, legato a un successo comune.

 

MP L’opera si potrebbe considerare la forma d’arte inattuale per eccellenza. Eppure la categoria del “melodrammatico” non è estranea al mondo dell’arte contemporanea. C’è secondo lei una componente dei linguaggi artistici di oggi che richiama se non l’opera almeno l’immaginario operistico?

FS Il melodrammatico lo intendo come una recitazione a tinte forti, con caratteri anche romanzati. Sicuramente l’arte contemporanea dell’ultima generazione si è avvalsa dello strumento della narrazione. È stata anche una reazione al formalismo che, attraverso il linguaggio concettuale sviluppatosi da idea e concetto, ha preso la forma di una narrazione. Quando penso al melodramma applicato alle arti visive penso a un’intensità dell’immagine. E l’arte ha sempre ricorso a questa forza, ovviamente. Soprattutto ultimamente, anche per via di evoluzioni tecnologiche che hanno permesso agli artisti di raggiungere un’espressività molto più intensa, a volte legata alla drammaturgia dell’immediatezza. Quindi non so se parlerei di arte melodrammatica, ma possiamo dire che nell’arte oggi c’è un aspetto narrativo che prima non c’era, e un rapporto tra la narrazione e il melodramma mi sembra evidente.

 

MP Peraltro ci sono moltissimi artisti di ieri e di oggi che si sono cimentati in scenografie d’opera: da Giorgio De Chirico ad Anselm Kiefer.

FS Ma possiamo fare anche il discorso inverso. Nell’arte del nostro tempo stiamo vivendo sempre di più un’uscita dal “cubo bianco” (lo spazio espositivo tipico del modernismo ndr), ed è sempre più frequente trovare mostre con vere e proprie scenografie dentro cui vengono allestite le opere. Nelle produzioni artistiche e ancora di più nelle presentazioni di mostre degli ultimi anni, possiamo notare una progressiva uscita da quelli che sono i dettami del “cubo bianco” a vantaggio di mise-en-scène che in passato erano proprie ad altri contesti artistici, ad altre discipline. Non si vuole isolare le opere, ma metterle in relazione tra di loro in un modo più evocativo, spesso legandosi a una narrazione. Non c’è dubbio che entrare in una mostra oggi si avvicini spesso a un’esperienza teatrale.

 

MP È anche un nuovo modo di interpretare il compito di un museo, che non deve soltanto custodire il passato, ma far vivere quello che contiene.

FS Se fino a qualche anno fa le istanze museali erano legate all’oggetto, appeso al muro, all’opera nello spazio, improvvisamente il panorama si è ampliato. Sia come discipline, nella misura in cui non si parla più di “arte” ma di “arti”, sia come linguaggio, perché il museo oggi non sembra più preposto a esprimere delle verità assolute, non vuole più solo insegnare, ma si pone in maniera molto più orizzontale. Porre dei quesiti, coinvolgere e stimolare ha preso il posto delle risposte che fino a qualche anno fa eravamo soliti cercare entrando in un museo. Infatti, se prima gli spazi erano più ampi e indirettamente ispirati a luoghi di culto, anche per il rapporto quasi univoco che avevano con il visitatore, adesso sono diventati dei luoghi dove si sperimenta, dove si prova e si espongono anche gli errori. Il museo non è più la casa delle Muse, ma un laboratorio.

Mattia Palma