Dietro le quinte del potere

Dietro le quinte del potere

Il franchismo, il Teatre Lliure di Barcellona, il rapporto con Strehler, con Milano e con la Scala: Lluís Pasqual si racconta mentre affronta la più monumentale delle opere verdiane

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La Stagione 2023-2024 del Teatro alla Scala si apre con il Don Carlo, una delle opere più grandiose di Verdi che, non a caso, per la complessità della trama orchestrale (e la sontuosità dell’impianto drammaturgico) venne da alcuni accusato di “wagnerismo”. Per maneggiare un materiale così stratificato serviva un maestro del teatro come Lluís Pasqual, particolarmente sensibile ai rapporti con il potere (o “tra” i poteri) – vero fulcro del capolavoro verdiano – anche solo per la sua gioventù segnata, in Spagna, dal regime di Franco. 

 

BS Maestro, lei ha cominciato a fare teatro negli anni Settanta, sfidando la censura franchista dell’epoca con l’ideale di un teatro libero.

LP È così, vivere sotto il franchismo mi ha dato la possibilità di scoprire la libertà: anzitutto di cercarla, dato che non c’era, e poi di trovarla. Dopo la morte di Franco ci sono stati almeno 15 anni di straordinaria esplosione creativa. Quando abbiamo realizzato il Teatre Lliure (Teatro Libero ndr) abbiamo immaginato uno spazio di piccole dimensioni, come il Piccolo Teatro costituito a Milano da Grassi e Strehler. C’era bisogno di abbattere la distanza tra pubblico e scena, di vedere gli attori da vicino per meglio immedesimarsi nelle loro emozioni e nei loro drammi.

 

BS Quando ha scoperto l’opera?

LP Ho cominciato ad andare al Liceu di Barcellona a 14 anni e, da allora, per me è indispensabile. Si tratta di un fenomeno irrazionale, o la ami o la odi. Onassis, ad esempio, diceva alla Callas “per me l’opera lirica è come il rumore della cucina di un ristorante a mezzogiorno”.

 

BS Che ricordo ha della sua prima regia d’opera?

LP Samson et Dalila a Madrid con Domingo. Avevo 24 anni e ho bestemmiato in scena perché il coro non faceva quello che chiedevo. Mi hanno denunciato in quanto la bestemmia era reato in quegli anni. Ho un ricordo migliore del secondo titolo che ho curato, il Falstaff, con Pilar Lorengar.

 

BS In due parole, cosa significa fare il regista?

LP Il primo giorno tutti pronunciano il tuo nome, ti chiedono qualsiasi cosa: da dove devono entrare in scena, come devono camminare, dove devono guardare ecc. Poi, man mano che passano i giorni, nessuno ti nomina più.

 

BS Se così accade immagino voglia dire che ha fatto bene il suo lavoro, li ha resi autonomi e consapevoli…

LP Spero di sì. E le devo dire che, se dovessi scegliere, preferirei ormai essere spettatore che regista.

 

BS Come mai?

LP Perché la lirica è invecchiata, è come una vecchia signora che ogni tanto ha bisogno di un lifting.

 

BS Il teatro di regia di matrice tedesca è stato un buon lifting secondo lei?

LP Io sono un regista “classico”, per me prima di tutto viene la musica. Se faccio Romeo e Giulietta di Shakespeare con gli attori posso decidere i tempi, il respiro. Se invece faccio la versione messa in musica da Gounod il respiro lo ha già deciso lui. Nella lirica io sono l’assistente del compositore, e le confesso che è una parte che mi piace molto fare.

 

BS E quindi il Konzept così sacro ai tedeschi?

LP Le rispondo con un altro esempio: il Rigoletto messo in scena da Graham Vick aveva un’idea grandiosa, ci sono però tante altre idee che sono piccole. Io faccio teatro perché amo il pubblico, Strehler diceva che è “un atto d’amore”; non lo faccio per scandalizzare. Ci sono altre cose che devono scandalizzare, pensiamo a Gaza.

 

BS Il ricordo più affettuoso che ha di Strehler?

LP Quando ero giovane ho letto Per un teatro umano e ho subito colto delle affinità elettive tra me e lui, per questo andai al Piccolo. Ho aspettato circa sei ore alla porta e quando Strehler è uscito mi ha detto “E tu chi sei?”. “Mi chiamo Pasqual” gli risposi. “Ah, come il sosia di Arlecchino. E cosa vuoi da me?”. “Farti da assistente” dissi io timidamente. “Ne ho già cinque, è meglio se diventiamo amici, perché non ho nessun amico spagnolo”. E così fu.

 

BS Qual è stato il suo più grande insegnamento?

LP Giorgio mi ha insegnato a sviluppare la generosità e la fiducia con l’attore, e poi ad alzare l’asticella, sempre. “Tu devi voler dipingere la Sistina” mi diceva. E questo è tremendo, perché non sarai mai soddisfatto del tuo lavoro.

 

BS Milano, come è cambiata da quando la conosce?

LP Quando c’erano le pause al Piccolo andavo in una stradina a Brera chiamata via Fiori Chiari, non c’era nessuno, camminavo e avevo la sensazione di essere in un monastero. Adesso, come sa, è piena di negozi di lusso. Milano ormai è una città per ricchi. L’altra mattina sono stato seduto in piazza davanti alla Scala per mezz’ora e non ho sentito parlare una sola parola di italiano, vedevo solo turisti stranieri passeggiare con le borse di Gucci o Vuitton.

 

BS Questo in piazza, e dentro la Scala?

LP L’ultima volta che sono andato alla Scala ho visto il Don Giovanni di Carsen, ero nel palco reale e accanto a me c’era una coppia di stranieri. All’intervallo lui ha chiesto a lei in inglese “Ti piace?”, e lei ha risposto “Vediamo cosa dice Google”. Sono rimasto spiazzato, il pubblico adesso è anche questo.

 

BS Siamo certamente davanti a un cambiamento antropologico epocale, la fruizione di qualsiasi cosa è mediata dallo smartphone e dai social, sappiamo bene che nessuno fa più la fila per guardare la ‘Gioconda’, ma per farsi il selfie. Gli influencer sono i nuovi idoli, cosa ne pensa?

LP Un coltello può servire per tagliare il pane o per ammazzare qualcuno. Penso questo delle tecnologie: sono positive, ma dipende da come le usiamo. E penso anche che tutto parta da una cosa che si chiama scuola. Io dovevo diventare panettiere come mio padre, poi a scuola ho scoperto il teatro e l’ho scelto, o meglio lui ha scelto me. Detto questo, la pasta sfoglia mi viene molto bene!

 

BS Andiamo a Verdi, per alcuni versi può essere considerato il primo “anti-regista” a causa delle sue famose disposizioni sceniche; questo suo essere così prescrittivo secondo lei è un limite o un aiuto per il regista?

LP È molto semplice, per me è un obbligo! Nessuno ti obbliga ad andare in un monastero e a stare in silenzio, così come nessuno mi ha obbligato a venire alla Scala per fare questa regia. Chi compone musica disegna il suo respiro, e io devo seguire quel respiro. Le convenzioni teatrali dell’Ottocento non sono certo le stesse di oggi, l’arrivo del coro per esempio viene gestito in modo diverso – all’epoca erano piazzati e alzavi solo una tela, adesso devi trovare il modo di gestirli senza l’uso dei sipari – ma il respiro è lo stesso.

 

BS La versione che metterete in scena è quella del 1884 per la Scala in quattro atti senza balletto; è forse l’opera più lunga di Verdi, con impostazione da grand opéra e una trama assai stratificata; queste caratteristiche la rendono un’opera adatta ai giovani d’oggi così poco abituati alla complessità e ai tempi dilatati?

LP Le rispondo così: io da piccolino, la domenica, andavo a teatro con i miei genitori, e non andavo agli spettacoli “per giovani”, anche perché non c’erano, andavo a teatro, punto. Andavo a vedere i grandi drammi senza tempo, come la storia di Edipo. Nel Don Carlo di Verdi c’è al centro una profonda lotta tra due poteri: lo Stato e la Chiesa. Il fulcro di tutto è certamente il confronto tra il Grande Inquisitore e il Re di Spagna Filippo II. Quello è il cuore, e lì capisci che a Verdi la Chiesa non stava simpatica. Anche io sono anticlericale di famiglia e credo che per un giovane di oggi questa sia una corda che può risuonare. In ogni caso, come ho detto prima la lirica è una cosa del tutto irrazionale: io a 12 anni ho scoperto un giradischi a casa di mia zia con un disco della Callas che cantava “Casta diva” e per un mese l’avrò ascoltata due ore al giorno. Son caduto da cavallo come San Paolo.

 

BS La prima “epifania” fu dunque belliniana…

LP Sì, sono un amante del repertorio belcantista, adoro la voce umana e credo che il massimo – su questo fronte – l’abbia fatto Bellini. I miei amici andavano in India per trovare il Nirvana, a me bastava Bellini.

 

BS Don Carlo ha una tinta musicale scura, ritroviamo la stessa tinta nella scena che lei ha immaginato?

LP È vero, e la prima domanda che un regista si fa è “deve essere chiara o scura?”. La mia scelta propende per il chiaro: tutta la scena è di finto alabastro, con odore di incenso, ecclesiale. I personaggi invece sono vestiti di nero, perché il velluto nero era un segno di ricchezza. Nel mio caso però la tinta chiara è simbolo di ipocrisia, qualcuno molto tempo fa parlò di sepolcri imbiancati…

 

BS La sua chiave di lettura è più politica – e quindi pubblica – o intimista?

LP Nell’opera noi vediamo le quinte del potere, vediamo Filippo II più che come Re come semplice uomo che soffre; c’è solo l’autodafé che possiamo paragonare alle sfilate di regime in Corea o in Russia, ma io preferisco far vedere il backstage, con degli esseri umani profondamente soli. Il duetto che Verdi mette in scena tra Filippo ed Elisabetta è una discussione che potrebbe svolgersi tra una coppia qualsiasi. Certo, se io fossi tedesco farei il Grande Inquisitore come burattinaio, ma come sapete non lo sono...

 

BS Il Don Carlo, il 7 dicembre, inaugura la nuova Stagione della Scala con lo sforzo mediatico che ben conosciamo: diretta sulla RAI e in decine di Paesi nel mondo; come vive questa esposizione?

LP Le confesso che io non sento alcuna pressione: se avessi 30 anni la sentirei ma ne ho 72, il mio lavoro finisce prima che abbia inizio tutto questo. Certamente fare Don Carlo alla Scala è diverso dal farlo al Covent Garden: voi avete la vostra tradizione a cui mi devo necessariamente legare, quindi è uno spettacolo “per” la Scala.

 

BS Per il pubblico che c’è dentro in sala o fuori in TV? Le telecamere quanto la condizionano?

LP Lo faccio per il pubblico in sala, sta poi alla RAI rendere bene lo spettacolo per la TV. È come il calcio: è per quelli che sono allo stadio, chi guarda in TV vede un’altra cosa…

 

BS Se davanti a lei ci fosse Verdi in persona, cosa gli chiederebbe?

LP Cosa ti ha fatto la Chiesa per deluderti così tanto?

 

BS C’è ancora un sogno nel suo cassetto?

LP Sì, Il flauto magico, perché non l’ho ancora capito bene e quando ti ci ritrovi “dentro” lo capisci meglio.

Biagio Scuderi