Dirigere un’orchestra di voci

Dirigere un’orchestra di voci

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Alberto Malazzi, Bruno Casoni e Roberto Gabbiani raccontano la sottile arte del Maestro del Coro, una figura fondamentale che vive nelle retrovie di un teatro d’opera

724572BADG ph Brescia e Amisano ©Teatro alla Scala

Altro che bacchetta: un armamentario da campo. Scaletta, anche una semplice seggiola o sgabello su cui salire per farsi vedere, una piccola torcia per disegnare chironomie e richiami nel buio, bisbiglii sonori, schiocchi di lingua e labbra, occhiate e fischi a fior di labbra per sollecitare l’attenzione e indurre a preparare il fiato. Vivono – vivevano – dietro il sipario, talvolta mimetizzati con le balze di proscenio oppure indossando un costume di scena per stare al centro del gruppo di voci, i maestri del coro. Quando escono per gli applausi tra gli altri artisti, non sempre il pubblico li riconosce. Alla fine dei Due Foscari del 2016 Bruno Casoni è stato buato dal loggione che l’aveva preso per il regista. Ma l’equivoco è un’eccezione: alla Scala la tradizione, duplicando quella dei direttori musicali, è di musicisti con lunghe permanenze e “parentele” reciproche. Ognuno col suo segno musicale ma tutti col marchio sonoro storico onorato e protetto. All’ultima esecuzione dell’Ottava di Mahler sulle pedane agivano tre generazioni. Il capostipite Casoni, già ben consigliato da Romano Gandolfi, poi factotum-assistente di Giulio Bertola e al fianco di Roberto Gabbiani, oggi a riposo dopo vent’anni in prima linea; ancora in pista con le amatissime voci bianche: “La mia vera passione è la voce, e con i bambini la voce la crei da zero”. Accanto, il nipote Alberto Malazzi, dal 2021 suo successore ma maturato come vice (“sedici anni fortunati: imparare più che puoi è il primo mestiere dell’assistente”), e il figlio Alfonso Caiani oggi alla Fenice, che lo seguì sia sul coro sia sulle voci bianche.

Non è stato sempre così. L’albero genealogico dei direttori di Coro della Scala ha rami spezzati e innesti che ebbero durate limitate. Del resto, la storia stessa del Coro scaligero non iniziò sugli allori. “Sarebbe bella cosa che fossero da’ nostri teatrali del tutto esclusi i cori poiché manchiamo cotanto di soggetti che atti siano a sostenerli!” scrisse nel 1796 una gazzetta milanese. Ha dovuto attendere l’elevazione della Scala a Ente Autonomo per avere, con l’orchestra e altri servizi essenziali (la direzione dell’allestimento scenico ad esempio), la stabilità. E c’è voluto ancora per approdare alla concezione professionale. “Chi non conosceva la musica non era nemmeno ammesso alle prove pratiche”, ricorda Roberto Gabbiani, in Scala proveniente dal Maggio Fiorentino, dopo Bertola: dal 1990 al 2002, unico outsider rispetto alla filiera scaligera. Il professionismo degli “artisti del coro”, dicitura un po’ corporativa entrata nel galateo sindacale negli anni Settanta, era un requisito basilare. Prima no. Tant’è che quando il grande vecchio Vittore Veneziani tornò da pensionato a Ferrara, coerentemente vi fondò un’Accademia Corale per amatori; attualmente porta il suo nome.

In quegli anni finì la stagione delle “voci fantastiche ma analfabete” che Casoni poté sperimentare: “Alla mia prima prova (Tannhäuser, 1983, ndr) avevo a disposizione 27 tenori, tutti ‘Pavarotti’ come forza e colore; da rimanere senza parole”. La potenza era formidabile, l’intonazione non adamantina, la qualità disuguale. Bisognava essere capaci di sfruttare al meglio i difetti. Gandolfi creò gli inconfondibili suoni non timbrati, quasi senza intonazione e “sul fiato”: “il ‘Requiem’ mormorato così, all’inizio della Messa di Verdi, non s’è più ascoltato – ammette Casoni – ma i Quattro pezzi sacri con la pulizia e perfezione polifonica che abbiamo ascoltato qualche settimana fa con quelle voci non si sarebbero potuti fare”.

Oggi ci vuole altro. “È sbagliato considerare ‘artisti del coro’ un’etichetta ‘sindacale’ – spiega Malazzi – sintetizza al contrario una professionalità complessa. Sono artisti a 360 gradi: oltre a cantare recitano, cantano a memoria, in lingue diverse, si truccano e via dicendo”. Se guardiamo le vecchie immagini delle prove delle stagioni di Veneziani e Norberto Mola, con le coriste che indossano i grembiali grigi per non stazzonare l’abito, e rivediamo la panoramica della Scala nell’esecuzione dello Stabat Mater di Rossini in piena tempesta-Covid, con 58 coristi distribuiti, uno per palco per ragioni sanitarie, le differenze si capiscono. “Visto che avevamo le mascherine – scherza Casoni – la voce non è mai stata così ‘in maschera’, come si dice tecnicamente”. E l’assieme con l’orchestra – sparpagliata sotto, in platea – funzionò. “Più delle orecchie contarono gli occhi, anche se per aiutare l’ascolto il gruppo era diviso in due cori come nel Requiem di Verdi: tutte le voci sia a destra sia a sinistra”.

Non si sarebbe realizzato con altrettanta disinvoltura senza il cammino di consapevolezza e competenza artistica acquisita dalla fine degli anni Sessanta, i primi dell’era-Abbado. Se per Roberto Benaglio, gemma del ceppo musicale e spirituale di Veneziani, fu una grana convincere i suoi a cantare incapsulati come statue nell’inquietante antiteatro scenico di Pier Luigi Pizzi per la regia di Giorgio De Lullo nell’Oedipus Rex di Stravinskij (1969), chi c’era ricorda ancora le proteste alle prove del Boris Godunov “di” Jurij Ljubimov (1979), quando i coristi di Gandolfi furono imbragati con cinture di sicurezza per accedere agli alti loculi della scena-icona di David Borovskij. Come se fosse stata rimossa la memoria dei tavolati sospesi e basculanti di Al gran sole carico d’amore (1975), le collocazioni impervie e gli organici spropositati dei maxi-concerti nei vari Palasport e altri contesti musicali non ortodossi. E li aspettava altro. In Samstag aus Licht di Karlheinz Stockhausen (1984) le voci virili in abito da frate cantarono, danzarono, ritmarono il passo tra gli spettatori con gli zoccoli di legno, e un bagaglio a mano percussivo non meno bizzarro inclusivo di un sacco con 39 noci di cocco. Nel Lohengrin del 2012 Claus Guth e Christian Schmidt li sparpagliarono sui lati di una lunga balconata praticabile su quattro livelli.

Le “masse” corali un tempo erano più o meno impalate e raggruppate. La disposizione agevolava intonazione e reciproco sostegno sonoro; ed era facilmente guidata dalla quinta. La consuetudine di attaccare direttamente sul gesto del podio senza il “riporto” del maestro del coro è abbastanza recente: “Riccardo Muti voleva così già a Firenze – dice Gabbiani che fu il responsabile dal 1990 al 2002 – tra il gesto e l’occhio del podio e il coro non ci dovevano essere ostacoli di sorta, nemmeno in scena”.

Del resto, a quel punto della storia degli spettacoli d’opera, la bacchetta dei direttori dell’opera era adusa a fare i conti col palcoscenico movimentato dai registi. Di conseguenza, nell’arruolamento dei nuovi componenti coristi si definisce il modello per così dire “da conservatorio”. Il coro è meno una bottega di concezione artigianale dove il bilanciare le diverse semiprofessionalità vocali era il compito, e il segreto, del grande maestro – come in orchestra: ai tempi di Toscanini, quanti erano i diplomati tra i fiati? – ma si modella come vera e propria “orchestra di voci”. Fatta di persone che hanno scelto quella professione non come ripiego – poi magari capita di fare il passo avanti, come il corista Leo Nucci che dopo cinque anni, complice l’orecchio lungo di Gandolfi, riprese a fare il solista. La coscrizione interessa ragazze e ragazzi motivati che leggono lo spartito (gran risparmio di tempo e fatica rispetto al memorizzare a orecchio), che sanno mettere le mani sul pianoforte, che hanno frequentato corsi teatrali e letterari, che hanno imparato a pronunciare un paio di lingue non italiane. Sì, perché nel frattempo a rinnovare repertorio e “tradizione” di casa non erano approdati soltanto i registi che volevano il coro partecipe scenico, quando non protagonista, ma s’era imposta la (benedetta) pratica delle opere in lingua originale. Certo, si usa(va)no le traslitterazioni fonetiche, ma per i coristi fu una rivoluzione non veniale. Concettuale e tecnica. Cantare nella lingua dell’autore significò risolvere un problema accentuativo e interpretativo in più. Ma c’erano i maestri giusti. Con Gandolfi il patrimonio linguistico in repertorio fu cospicuo: con un gruppo da camera registrò anche una scelta di Lieder corali di Schubert. E ciò che il maestro parmense perfezionò come dinamica e accentuazioni drammatiche – trasmesse con gesti piccoli e mimica unica – fu rifinito in chiave per così dire “sinfonico-concertistica” da Bertola. Alla Scala dal 1983 al 1991 mise a frutto la pratica musicale plurima: direttore d’orchestra, del coro dell’Arena, della Rai Milano, dell’Accademia di Santa Cecilia, docente di esercitazioni corali. La presenza e gli impegni concertistico-direttoriali dei maestri del coro, con programmi polifonici specifici, non fu più un’eccezione. Ma ulteriore occasione di “studio di perfezionamento” e di confronto su repertori diversi, e non “protetti” dalla scatola esecutiva collettiva dell’opera.

Il coro era diventato una massa più pensante musicalmente: disposta a mettersi in gioco, dotata di un orgoglio professionale tutto particolare. Un corpo granitico anche nella difesa dei propri diritti con tutti i mezzi sindacali a disposizione. Ma spiritualmente si sentivano uno strumento artigianale e “pratico”: e d’istinto i coristi sono più in sintonia con la manovalanza tecnica di palcoscenico che con i colleghi musicisti in buca.

La personalità del coro di oggi quant’è quindi diversa da quella storica? Molte caratteristiche sono cambiate: “Sicuramente il colore è più leggero, ma la musicalità non fatica a bilanciare la differenza di ‘peso’”, conferma Malazzi. I concorsi-audizioni ne devono tenere conto: “Scegliamo voci che siano in grado di dare un reale apporto al complesso. Con qualità vocali assolute e importanti – suono, intonazione, potenza soprattutto nei ‘piani’ – intelligenza e duttilità: per amalgamarsi subito nel gruppo. La continuità si difende con l’eccellenza delle nuove personalità vocali innestate”. La nuova morfologia umana e vocalistica si adegua a metodi e tempi di lavoro – fino a non moltissimi decenni fa, la stagione operistica finiva a maggio-giugno – e al fatto oggettivo: come accade nella serie A dei protagonisti dell’opera, di certe carature di voce sembra proprio persa la ricetta.

Altri punti fermi giocano a favore della virtuosa “diversità” del Coro della Scala. L’organico ampio, senza confronti nei teatri internazionali. I calendari di prove e l’allargamento di repertorio. Ma soprattutto c’è la qualità dei direttori d’orchestra – stabili o ospiti – con cui si lavora, che si riverbera sulla tenuta artistica importante della formazione corale. Maturandone la qualità e affinando l’amor proprio. Poi, vale la regola, più laica, del nome e del trattamento economico della Scala: ai bandi concorrono, e hanno preso parte, sempre i migliori elementi su piazza.

E il futuro? Per alcune voci è buio: “Dove si trovano le voci inchiostrate dei bassi di una volta?” è rimostranza condivisa. E non ci sono meno aspiranti maestri del coro. “È un mestiere faticoso e umile – spiega Casoni che in Scala ha passato quasi quarant’anni – dà soddisfazioni quando si ha un buon rapporto con il direttore e non si è costretti solo a ‘ubbidire’”. Su questo conviene Gabbiani, ma rivendica il dovere del maestro di dialogare: “Col direttore che non è d’accordo, ma può capitare con lo stesso proprio coro, com’è successo a me arrivando da ‘straniero’ in Scala quando ho favorito gli innesti più freschi”. Certo, è facile capire i colleghi che preferiscono la strada più lieve della direzione d’orchestra, sostengono un po’ tutti. E le successioni sarà forse meno facile trovarle (o costruirle) in casa. Per la Scala, che con Malazzi s’è dotata di un maestro giovane ma di lunga frequentazione scaligera – entrato come borsista nel 1993, iniziò seguendo la preparazione di Fedora (Gianandrea Gavazzeni, Mirella Freni e Plácido Domingo): “Il maestro ci raccontava dei colloqui e spiegava le correzioni di Giordano, un pezzo di storia dal vivo” –, è per ora un pensiero remoto.

Angelo Foletto