Elogio della fragilità

Elogio della fragilità

Per la mostra “Fantasmagoria Callas” l’artista Latifa Echakhch, uno dei nomi più importanti del panorama internazionale, ha realizzato un sipario di perle bianche e rosse per evocare la figura di Maria Callas

Latifa Echakhch

L’artista franco-marocchina Latifa Echakhch ha realizzato per la mostra “Fantasmagoria Callas” - curata da Francesco Stocchi con l’allestimento di Margherita Palli - l’installazione Untitled (Tears), che appartiene a uno dei suoi tipici dispositivi di scene sospese: in questo caso piccolissime perle bianche e rosse attaccate a dei fili, da cui traspare l’orma fantasmatica di Maria Callas. Quella di Echakhch è l’opera che il Museo Teatrale alla Scala ha deciso di mettere in evidenza per la manifestazione MuseoCity, che quest’anno ha come tema “Mondi a Milano” (dall’1 al 5 marzo).

 

MP Come in altre sue opere, anche in questa lei lavora su un’economia di segni: semplici i materiali, semplici le manipolazioni. Eppure, questa semplicità può generare una trasformazione radicale. Quale processo aveva in mente?

LE Il pezzo che ho proposto per questo progetto espositivo molto particolare è semplicemente una cortina di piccole perle di vetro, con delle sfaccettature simili a diamanti, che cadono come una cascata. Queste perle, rimanendo sospese, diventano la sagoma di una presenza spettrale. Per lo più sono trasparenti, ma c’è anche un piccolo insieme di perle rosse che si scorgono girando intorno al pezzo, che danno all’insieme un tocco di colore. I fili non sono trasparenti, sono come quelli delle collane di perle. Non volevo alcun effetto magico, anzi volevo che fosse evidente il richiamo a una collana di perle che potrebbe essere caduta in seguito a un incidente. Così resta l’impressione di un’opera sospesa, perché non possiamo sapere se si tratta di qualcosa di bello o di drammatico, qualcosa di triste o di felice.

 

MP Come ha lavorato sulla figura di Maria Callas per arrivare a quest’opera?

LE Mi è stata data carta bianca per progettare un’opera che parlasse, ricordasse, o meglio evocasse questa figura immensa che è Maria Callas. Ed è stata davvero una sfida per me. Mi sono detta che avrei dovuto cercare nell’essenza stessa di ciò che Maria Callas ha rappresentato e rappresenta ancora. Non volevo fare qualcosa di troppo accademico né di troppo celebrativo. Sarebbe stato un entrare troppo nel dettaglio di tutte le storie, grandi e piccole, che hanno costituito la sua vita. Al contrario volevo trovare ciò che di lei ci parla ancora oggi più direttamente, che è l’essenza stessa della tragedia, vale a dire come qualcuno attraverso la sua voce, il suo corpo, la sua presenza, può incarnare la tragedia umana. È un grande argomento che è stato sviluppato per secoli e che rimarrà sempre: ci sarà sempre un lato tragico nell’umanità e ci saranno sempre figure che porteranno in loro questo lato tragico. Da tali considerazioni ho immaginato di mostrare la sensazione di qualcosa che sta per crollare: un’immensa bellezza, ma dotata di una materialità molto semplice, sospesa.

 

MP Per trovare l’ispirazione ha visitato anche gli archivi della Scala.

LE Sono rimasta affascinata dai costumi che Maria Callas indossava, costumi che servivano per raccontare storie straordinarie, ma che allo stesso tempo erano solo tessuti, oggetti, cappelli e collane che venivano fabbricati con materiali semplici, che però sul palcoscenico venivano resi in qualche modo “vocali”: in inglese si dice “to be vocal” per intendere quando si dà forza interiore a qualcosa.

 

MP In molti dei suoi lavori si intravvedono elementi di teatralità. Qual è il suo rapporto con il teatro?

LE La questione della teatralità attraversa tutta la storia delle arti visive. Io ho iniziato a lavorare su delle scenografie solo nel 2014, per un’opera che si chiamava La dépossession: un grande sipario crollato che rappresentava il cielo. A questo sono seguiti altri lavori, ma ho capito solo tardi il mio rapporto intimo con questo modo di mostrare le cose, per la mia mostra a Villa Sauber, nel Principato di Monaco, dove ho lavorato sugli archivi dell’Opéra Garnier ricostruendo alcune scenografie che erano negli archivi. Una volta allestita la mostra, m sono ricordata che da bambina assistevo spesso a rappresentazioni di operette a Aix-les-Bains, dove sono cresciuta: mio ​​padre lavorava al casinò Grand Cercle e potevamo assistere agli spettacoli che facevano. Dopo le rappresentazioni, quando mio padre andava a salutare i colleghi, lo seguivo sul palco, e ricordo nitidamente la sensazione di camminare sulla scena dopo lo spettacolo, quando ti rendi conto che da vicino non c’è niente di meraviglioso perché si vedono i finti intonaci, il retro delle scenografie e tutto diventa un po’… deludente. Mi è rimasto impresso ritrovarmi di fronte a questa fragilità dell’immagine. E poi all’improvviso mi sono resa conto che stavo solo riproducendo un ricordo d’infanzia! Mi è sempre piaciuto mettere in discussione tutto, costantemente, specie quando guardiamo un’opera d’arte, che sia una scultura o teatro, opera, cinema. Sappiamo che è tutto falso, sappiamo che è tutto costruito artificialmente, eppure riesce a comunicarci altro. E noi vogliamo credere a questi sentimenti molto forti, a queste emozioni che vengono trasmesse che però, allo stesso tempo, ci riportano alla fragilità dell’umanità.

 

MP È il paradosso dell’arte?

LE Il paradosso della bellezza, quando ci ritroviamo a metà strada tra la forza dell’emozione trasmessa e la debolezza dell’ambientazione. Potremmo costruire un mondo intero e allo stesso tempo, appena si accendono le luci, appena ci spostiamo dal fronte della scena, all’improvviso ci accorgiamo di qualcosa di molto più fragile. Questo ha secondo me un legame molto forte con Maria Callas. La grande domanda che mi sono sempre fatta su questo personaggio è: “Come è riuscita a incarnare tutto ciò nel corpo di una semplice donna?”. Stare davanti alle luci, essere scrutata, analizzata, giudicata, e allo stesso tempo posta su un enorme piedistallo. È qualcosa che mi ha colpito enormemente, nel senso che per lei deve essere stata dura, non riesco nemmeno a immaginarlo. Io ho un lavoro che mi consente di trasmettere i miei sentimenti, le mie emozioni e i miei pensieri, ma allo stesso tempo posso permettermi di rimanere un passo indietro: è il mio lavoro che parla, la plasticità del mio lavoro.

 

MP Questo non vale per Maria Callas.

LE No, perché lei il lavoro lo portava dentro di sé, o meglio coincideva con la sua stessa fisicità. In seguito, tutti i racconti della sua vita le hanno reso sempre più difficile gestire gli aspetti personali. Anche nelle occasioni pubbliche tutti volevano vedere la sua sfera privata, e lei è diventata un corpo fatto a pezzi dagli altri, perché nemmeno i suoi sentimenti le appartenevano più. Non userò la parola martire, ma nella figura di Cristo si trova molto di tutto questo. C’è un dipinto alla Pinacoteca di Monaco che ha come soggetto Cristo spodestato, lo si vede camminare per strada mentre i passanti gli strappano i vestiti. Questa piccola scena piuttosto rara mi ha molto affascinato, perché in fondo è il minimalismo: quando perdiamo possesso di tutto cosa ci resta? È questa sensazione di grande vuoto e allo stesso tempo di grande pienezza che mi permette di pormi delle domande.

Mattia Palma