I bambini ci guardano

I bambini ci guardano

Damiano Michieletto torna alla Scala per mettere in scena Médée di Luigi Cherubini. Con lo psichiatra Vittorio Lingiardi discute della dissociazione di Medea e di un nuovo punto di vista su una costellazione familiare in frantumi: quello dei figli

Damiano Michieletto

Fin da Euripide, Medea abita la nostra psiche. Dunque ogni nostra arte. Da Corneille a Anouilh, da Toni Morrison a Christa Wolf, da Charpentier a Rameau, da Pasolini a Lars von Trier, infinite Medee rispondono all’appello – esuli, sciamane, vendicatrici, innamorate, demoniache, straniere, postcoloniali. Di Medea mi ha sempre colpito come, nonostante il suo atto infanticida, abbia sempre generato sentimenti non tanto di fascino, è pur sempre una maga, quanto di comprensione, ambivalente identificazione, persino solidarietà. Siamo nel pieno di quella che è stata definita (da Stefano Ercolino e Massimo Fusillo) “empatia negativa”. Una polifonia di struttura e ricezione è del resto tipica dei grandi personaggi: pensiamo, restando su un recente palco della Scala, a Don Carlo, un altro “cattivo”.

Medea non è liquidabile, va ascoltata. Damiano Michieletto la porta alla Scala, con l’opera di Luigi Cherubini, il 14 gennaio. “Ho attraversato il repertorio di tutte le Medee, ho cercato di capire il più possibile, per poi uscirne privo di modelli, vergine. C’è solo un testo che tengo sempre nello zaino, quello di Euripide: è il riferimento narrativo che condivido sulla scena con i miei cantanti. L’empatia che si stabilisce con Medea è il senso stesso della tragedia. L’esatto contrario della cronaca che tratta gli stessi fatti atroci ma è sempre attenta al dettaglio morboso, lasciandoci alla fine in una condizione di disagio e non di conoscenza. La tragedia invece non spettacolarizza, la morte non viene quasi mostrata”. Per questo la tragedia è terapeutica: catarsi aristotelica, pietà e orrore insieme; catarsi psicoanalitica, liberazione dalle esperienze conflittuali e traumatiche. Che nel mito di Medea ovviamente non mancano. “Al paradossale movimento empatico contribuisce un finale che sembra ‘assolvere’ Medea, la quale vola via sul carro del Sole portando con sé i corpi dei figli e maledicendo Giasone: ‘Più felice di te io me ne vado nell’aria! Per cammini conosciuti, a me sempre aperti!’. Il valore della tragedia, l’importanza di leggerla a scuola, meglio se ad alta voce, è il suo dare voce alla conflittualità senza smettere di cercare una giustizia. È il suo chiedere a Zeus perché ci ha ‘fornito indizi certi per riconoscere se l’oro è falso’, ma non ha ‘impresso nel nostro corpo alcun contrassegno per smascherare chi è malvagio’”. Fondamentale in tal senso il ruolo del coro. “Spesso le tragedie hanno la struttura di un processo, ed è il coro a lasciare spazio alla discussione e all’analisi dal punto di vista del conflitto. Da quello della trama il coro non è ‘necessario’, ha valore soprattutto perché dà voce al pubblico, si esprime con modi di dire anche popolari, invocazioni, come fa la gente di fronte a una tragedia, dà consigli, non è mai un coro giudicante, un coro da talk show”.

Molteplicità delle voci e struttura processuale sono i due elementi attorno a cui la regista Alice Diop costruisce il magnifico film Saint Omer, ispirato al mito di Medea, un dramma brechtiano che sviluppa lo schema della tragedia antica dentro quello del film giudiziario. Ogni voce – l’imputata, l’accusa, la difesa, la giudice, il testimone, la giuria, il pubblico – è unica e necessaria alle altre. L’aula del dibattimento diventa un teatro che in un crescendo ipnotico occupa l’intero mondo delle possibilità storiche ed emotive. In quell’aula ci siamo anche noi, osservatori e partecipi, inorriditi e commossi da un film sulla maternità che prende le mosse da un infanticidio. “All’inizio volevo usarla, questa idea del processo; poi mi è sembrata una cornice troppo facile e ho preferito lasciarla emergere senza rappresentarla. Ma il tema delle voci è fondamentale, restituisce il dialogo dei personaggi, offre il punto di vista di ciascuno. Giasone, per esempio, fa un lungo monologo in cui spiega a Medea le sue ragioni. Giasone è un narcisista cinico, spietato e traditore o è un uomo con una sua saggezza, un padre che vuole dare ai suoi figli un futuro? Al tempo stesso lo spettatore ascolta tutta la via crucis di Medea, il libretto le fa pronunciare la parola fatale: ‘abusata’ (‘ti pentirai di aver abusato di me’). Capiamo che Medea si sente non riconosciuta, cancellata, anche se è grazie a lei che Giasone ha conquistato il vello d’oro. Ingratitudine e disconoscimento causano un dolore lacerante da cui nasce la volontà di sradicare tutto ciò che la lega a Giasone. Il suo modo di ucciderlo è uccidere i suoi figli, la discendenza”.

I miti sono sorgenti psichiche inesauribili: non si limitano a un racconto e si tramandano in più d’una versione. È così per Edipo, Narciso, Odisseo, Clitemnestra, Fedra, Antigone. È così per Medea, del cui mito alcune letture si concentrano sulla colpa, altre sulla vendetta, altre ancora sull’innocenza. Potremmo dire che Medea è anche, soprattutto, una tragedia sulla razionalità greca che teme e rifiuta l’irrazionalità barbara (cosa che mi fa pensare alla Medea-Callas di Pasolini, rilettura del mito in chiave antropologica come rappresentante di una civiltà arcaica fagocitata dal razionalismo borghese neocapitalista). “Sì, Medea è l’ospite inatteso, la tragedia di una donna invisibile e spaesata nella cornice della pulizia raziocinante greca. Io la mostro esule, impasticcata, trascurata, quasi una barbona”. Ne hai fatto una dropout! “Gran parte della sua presenza in scena è così. Ma Medea, lo abbiamo detto, non si esaurisce in una Medea. Ho pensato di mostrarne anche un’altra, una Medea per così dire ‘prima del trauma’, Medea prima di Medea. Durante l’ouverture la vedrete mentre spinge una carrozzina; è composta, ben vestita. È la stessa che rivedrete, perché lei stessa in maniera quasi dissociata ci ritorna, quando dovrà uccidere i figli”. Quest’idea dissociativa di Medea, lo dico da psichiatra, è una lettura “clinica” forte, profonda, originale. “È il risultato del mio doppio sguardo su di lei, ma anche del suo tentativo di sopravvivere alle aspettative coniugali e anche alla sua personalità tellurica”. Medea di Michieletto è dunque sia la complessità psicologica del conflitto intrapsichico e relazionale, sia un acting violento: non però quello che gronda sangue dalle pagine dei giornali, ma un evento simbolico che è al tempo stesso mito, teatro e incubo.

Un’altra idea sorprendente della Medea di Michieletto è il ruolo dei bambini, il tentativo di raccontare la tragedia dal punto di vista dei figli. “Quale visione e consapevolezza possono avere della madre? Come vivono la relazione con il padre che ora si risposa? Ricordo uno spettacolo di Luca Ronconi con Franco Branciaroli nei panni di Medea. Qui i bambini erano due pupazzi, e in quel codice narrativo funzionava. In Euripide ci sono molti momenti in cui i bambini sono presenti in scena ma non parlano. Al tempo stesso hanno rapporti con tutti i personaggi, che spesso si rivolgono a loro. Tutto ruota attorno a loro, mi sono detto. Allora ho deciso di dare più importanza a questi bambini, ho cercato di raccontare i loro pensieri. Ho eliminato i dialoghi recitati tipici della forma opéra-comique di Cherubini e ho introdotto le voci e i pensieri dei bambini. A partire da testi scritti da Mattia Palma, a cui avevo indicato dei punti specifici del libretto, abbiamo creato un linguaggio, immaginato il mondo interno dei figli di Medea. La mia intenzione era quella di fare dei due bambini dei personaggi e non delle appendici liriche”. Mi chiedo se i pensieri di questi bambini siano toccati dal trauma, anzi dall’attaccamento traumatico. “No, la morte arriva a loro insaputa. Certo percepiscono il contesto, la sofferenza della madre, ma non volevo che, sapendo come va a finire, pre-costruissimo bambini traumatizzati”. Aggiungo, ed è il secondo pensiero da psichiatra, che è proprio dei bambini che crescono in contesti familiari molto conflittuali o addirittura traumatici il bisogno di salvare il genitore a tutti i costi, scindendo l’aspetto “abusante” da quello “protettivo”. “È vero. Nella loro mente l’imago genitoriale viene salvata, Medea è la loro mamma. Una madre-maga che non li uccide a coltellate ma li addormenta quasi a salvarli per sempre dal padre abusante, quasi a dire non li ho uccisi ma li ho salvati”. Accade così, ed è il terzo e ultimo pensiero da psichiatra, in certi deliranti omicidi salvifici. “Con la mia Medea ho voluto mettere in dialogo il racconto ‘borghese’ di una costellazione familiare che va in frantumi con il racconto ‘mitico’ e visionario di una maga barbara dai poteri ancestrali che conosce il fuoco, il fumo, il carbone, la terra. La mia Medea, che non colloco in un’epoca storica, è anche un’opera sul conflitto tra relazioni contemporanee e dimensioni archetipiche”. Inconscio personale e inconscio collettivo, una Medea che piacerebbe a Jung.

Vittorio Lingiardi