Il momento giusto per Verdi

Il momento giusto per Verdi

Lorenzo Viotti, giovane direttore dell’Opera di Amsterdam, affronta un titolo verdiano simbolo della storia scaligera, Simon Boccanegra, che fu anche il suo primo shock teatrale, quando da bambino lo sentì diretto dal padre

13.2 Immagine per Social Rivista Teatro

Trentadue anni all’anagrafe, pochi meno di attività musicale e direttoriale, Lorenzo Viotti affronta Simon Boccanegra, titolo cruciale della storia scaligera – dopo l’edizione Abbado/Strehler, il più importante studioso verdiano italiano, Massimo Mila, rettificò la valutazione critica della partitura – dopo aver già eseguito in Scala numerosi concerti, dal suo debutto nel 2018, e opere francesi: Thaïs di Jules Massenet e Roméo et Juliette di Charles Gounod.

 

AF Per lei, si tratta di uno dei primi titoli d’autore.

LV Ma con Verdi ho iniziato presto. Rigoletto è stata la mia seconda opera – dopo Carmen – e l’ho replicato in molti teatri. Poi c’è stata una Traviata per i giovani e La forza del destino, ma ero troppo giovane per dirigerla: non sentivo il “corpo” drammatico di questa storia. Ma da percussionista, all’Opera di Vienna, le ho suonate quasi tutte. E la mia prima opera ad Amsterdam avrebbe dovuto essere Otello. Saltò per il Covid.

 

AF Come a dire che col mondo di Verdi ha familiarità.

LV E ho fatto diversi titoli italiani in “preparazione”: sei Puccini, tantissimi Rossini, alcuni Bellini in forma di concerto, le ouverture di Verdi…

 

AF Ora debutta Verdi alla Scala. Quali sensazioni prova?

LV Ci voleva un coraggio speciale, oltre che la volontà, per fare un’opera italiana, qui – e da musicista non italiano. E il tempo giusto: per me come interprete; per il rapporto con l’Orchestra, con il Teatro, con il pubblico. Adesso non ho paura, assolutamente no.

 

AF Aspettare il momento giusto. La prima volta che ha diretto in Scala, ha detto la stessa cosa. Ma qual è il momento giusto?

LV Il nostro è un lavoro particolare: anche se conosciamo il teatro e il pubblico, ogni volta devi ricominciare da zero. Almeno per me. Per di più un titolo italiano, alla Scala, è un’opportunità e una responsabilità unica. Bisogna saper entrare in una tradizione, ma allo stesso tempo farla proseguire e proporre idee nuove: guadagnare la fiducia dei musicisti e degli spettatori.

 

AF Iniziare un cammino italiano con un titolo per ragioni diverse problematico pare un azzardo aggiunto.

LV Per me Simon Boccanegra rappresenta un caso a parte: è una partitura, anzi una musica, che fa parte della mia vita. Ci sono cresciuto. E non ho dubbi sul fatto che in questo titolo posso dare qualcosa di particolare.

 

AF Si spieghi meglio.

LV È la prima opera che ho ascoltato in teatro. A cinque anni: dirigeva mio padre Marcello. Ed è stato il mio primo shock infantile, perché prima ho visto Paolo morire in palcoscenico, poi l’ho rivisto vivo nel backstage: da bambino non capivo come potesse accadere una cosa del genere. E ho pianto disperatamente. Fu mio padre a spiegarmi che in teatro si può giocare con la vita e in seguito avevamo una cassetta che ascoltavamo di continuo nei viaggi in automobile.

 

AF Opera “speciale” nel complesso della produzione verdiana. Parliamo ovviamente dell’edizione del 1881. Opera in cui alcune tematiche sono trattate con riguardo e ampiezza. È stata definita il “testamento politico” di Verdi. È d’accordo?

LV Non ho ancora smesso di rifletterci. La fine dell’opera, le ultime quattro battute, non ci chiariscono se il “sacrificio” che Verdi fa di Simone – e della sua visione politica – porta veramente il nuovo. Nella musica non sento questa speranza, anzi si ha l’impressione che la sua morte sia stata “inutile”. Non vedo l’ora di provarla e dirigerla da capo a fondo, per verificare questa sensazione.

 

AF Numerose situazioni di Simon Boccanegra hanno dentro un messaggio civile e umano non melodrammaticamente ordinario.

LV Per questo sono convinto che sia il testamento musicale di Verdi. Certo dopo verranno altri due capolavori e Pezzi sacri, ma la distanza tra questi e Boccanegra è enorme, e indicativa. Lo dicono la raffinatezza dei valori musicali della partitura, la velocità impressa all’azione drammatica attraverso la concisione dei pochi pezzi chiusi, il nuovo stile di canto. E la stessa tinta complessiva: la prima versione era triste, la seconda lo è ancora di più.

 

AF “È triste perché deve essere triste”, ribadì Verdi.

LV In più ci sono dettagli rivelatori dove non te li aspetti. Per esempio, nel duetto Amelia/Gabriele ci sono due battute che sono come un “Requiem” d’autore: sotto il colore religioso mi pare di sentire un autobiografico senso di distanza dalle cose del mondo, di accettazione della verità e dell’età. Ma con nobiltà.

 

AF Anche tutti i duetti tra Simone e Fiesco, musicalmente, sono costruiti come una sorta di marcia funebre.

LV È verissimo. Ma va detto che – oggi, almeno – in questi confronti riconosco un autoritratto verdiano in Fiesco più che in Simone. Anche in Verdi la dura visione politica di quando era giovane con l’età si ammorbidisce.

 

AF Un altro tema forte dell’opera è la paternità negata.

LV Quasi tutti i padri verdiani sono “carnivori”, e non c’è quasi mai un rapporto diretto tra figli e madre, fmorta e/o angelicata. Qui c’è una figlia ma con più “padri” e alla fine la vicenda familiare e di affetti impallidisce rispetto all’argomento politico. Se si aggiunge la complicazione di un libretto così disteso nel tempo dell’azione, si capisce come spesso il pubblico rimanga sconcertato e confuso. Simon Boccanegra non ha una trama facile, e vive di motivazioni non immediate da cogliere al primo ascolto. Quasi ogni persona ha la “sua” versione. O, meglio, l’opera si racconta a ognuno in maniera diversa.

 

AF Diciamo che la vera famiglia che Simone vorrebbe è il popolo.

LV I suoi veri “figli” sono i genovesi, certo.

 

AF “Uomo assetato di giustizia”, Simone, come lo definiva Giorgio Strehler?

LV Uomo della democrazia, e uomo solo. Lo è sempre stato: prima come corsaro, rifiutato dalla patria, poi come doge. E la sua giustizia non ha nulla a che fare con la nostra concezione giuridica: è nel perdono. Nella prima versione di Simon Boccanegra, alla fine del duetto Gabriele/Fiesco c’è un giuramento di vendetta che Verdi elimina nel 1881. Altra giustizia per Simone è la pace. Gli uomini devono essere superiori ai demoni violenti e assetati di potere – oggi, li conosciamo bene – incarnati da Paolo.

 

AF L’avvio orchestrale del Simon Boccanegra ha un carattere per così dire “aperto”. La musica pare già iniziata. È un problema per il direttore?

LV No, perché è perfetta per farci capire subito che bontà e generosità del protagonista vengono da lontano. L’inizio ci fa sentire anche il respiro del mare e ci porta il sapore della trama politica, un mondo dove la conversazione è sempre sussurrata, ambigua e mai esplicita.

 

AF Peraltro, la seconda versione del Prologo è ancor più giocata sul non detto, sulle frasi interrotte…

LV L’esperienza che ho verificato in molti pezzi sinfonici, come nel recente Lohengrin, è che la musica comincia già col silenzio che segue gli applausi di saluto: quel silenzio è la prima nota della musica. L’inizio di Boccanegra me lo immagino come un “a cappella”: prima dell’attacco di un coro c’è sempre il silenzio, è il primo respiro delle voci. Qui ci sento voci lontane, il vento sul mare… Nelle parti vocali ci sono moltissime pause. Ho chiesto ai cantanti che questi silenzi si avvertano prima di spiccare con l’accento giusto il testo: come un momento di libertà espressiva cui segue il rigoroso fraseggiare suggerito dalle parole, che soprattutto qui dev’essere curatissimo. È necessario trovare il colore giusto per i silenzi: serve a spezzare la tinta omogenea dell’opera.

 

AF Colore che invece è squillante nel programma con la Filarmonica diretto tra le recite, il 19 febbraio.

LV Dopo Lohengrin, alcuni programmi di musica russa e Boccanegra sentivo il bisogno di un po’ di luce e di danza. La successione Rimskij-Korsakov, Ravel, Rachmaninov è difficile e impegnativa per tutti ma ci sono colori e gioia.

 

AF Simon Boccanegra è altresì l’opera più scura e maschile di Verdi.

LV In effetti, la voce femminile è risucchiata dal colore generale. E in orchestra, al di là della sua scena, ci sono poche parti per i fiati. Sono in evidenza i violoncelli e i contrabbassi, e tutti gli archi in generale gravitano nel registro medio-grave.

 

AF Per non ricordare la figura timbrica sinistra del clarinetto basso.

LV Che, come sempre in Verdi, è lo strumento del veleno.

 

AF Anche se ci sono stati altri allestimenti, Simon Boccanegra alla Scala significa Abbado/Strehler. Non la impensierisce il confronto?

LV Non mi pesa, assolutamente. Perché è una memoria bellissima ma di un altro tempo, di vita delle persone e di vita artistica, del “secolo d’oro” della musica classica e dei cantanti. Da allora il nostro lavoro è cambiato, e ha già tanti motivi per essere faticoso e carico di stress. Il ricordo del leggendario precedente non deve influire sulla voglia di dare una visione diversa senza cercare di “rifare” la storia.

 

AF In un’opera basata su dettagli e sul rapporto stretto tra orchestra e parola cantata, conta lavorare con un’orchestra “operistica” come quella della Scala?

LV L’opera in sé non è difficile da dirigere – in paragone, per dire, a Rosenkavalier – e anche se non so quanti musicisti abbiano già suonato Boccanegra, e quale sia la presenza della tradizione, è compito del direttore d’orchestra dare rilievo e coerenza drammatica ai dettagli. Il mistero tra le note è la parte più impegnativa per noi: capire e sentire la verità prima e dopo i silenzi, e far sì che la “parola cantata”, così è in Boccanegra, arrivi naturale. Come un respiro di verità e vita.

 

AF Ma lo “stile italiano” ha maggior naturalezza con un’orchestra italiana?

LV Ho sentito opere italiane fatte male in Italia e Wagner mal eseguito in Germania. Non è una questione di luoghi. L’interprete deve saper evitare la routine “nazionalistica” o la replica della tradizione.

 

AF Ma tradizione significa anche esperienza, familiarità col repertorio, attitudine ad accompagnare…

LV Certo è la vostra musica: dovete essere orgogliosi nel farla. Ma l’interpretazione non è scontata solo perché si canta nella vostra lingua. Nasce di volta in volta. Il lavoro e la visione, i colori devono essere del compositore.

 

AF E a ogni autore spetta la sua “tinta” come direbbe Verdi.

LV Il colore del suono è il primo passo. Domani io lo cercherò nella prima prova d’orchestra. Vorrei fosse “come la prima volta” anche per i musicisti. Non vedo l’ora di cominciare: aspetto questo momento da ventotto anni.

Angelo Foletto