La Diva dei due mondi

La Diva dei due mondi

A rendere Renata Scotto una Diva contribuirono istinto, razionalità e intuizione: elementi necessari per la profondità delle sue interpretazioni

ricordo di renata scotto

Ci fu una volta in cui capii, tutto d’un colpo, cosa significa la parola Diva: lo racconto in prima persona come dato di cronaca. Andai una sera al Met con Renata Scotto, un Trovatore bruttarello, primi anni Duemila. Per un disguido con il taxi arrivammo trafelati, entrammo in sala cinque minuti prima del levarsi del sipario, e nel vedere la Scotto scendere in platea verso la sua poltrona il pubblico cominciò ad alzarsi in piedi: la additavano e la riconoscevano e, ben prima che raggiungessimo i nostri posti, tutto, dicasi tutto il teatro si rovesciò nella cascata dell’applauso. Lei aveva un sorriso che conoscevo, un insieme di consapevolezza, prestigio, ironia e soddisfazione di una bimba birichina: gli occhi, che aveva svelti e prensili, le scintillavano in tralice. Dopotutto aveva scelto di vivere in America, il Met era il “suo” teatro e quello, dopo i folgoranti debutti alla Scala e la presenza su tutti i maggiori palcoscenici del mondo, dove più a lungo aveva plasmato la sua musicalità, spesso in comunione con James Levine.

Diva, dunque, lo era: per imperio del carattere, per dedicazione alla disciplina, per la capacità di trasfigurare il suo essere fisico, quello di una donna minuta che poteva diventare il corpo stesso dell’erotismo (si guardi il second’atto di Manon Lescaut con la regia di Gian Carlo Menotti, registrato in video al Met): e quest’ultima metamorfosi è la condizione cui tutti gli artisti veri che calchino un palcoscenico aspirano, divenire senza residui il personaggio interpretato (gli artisti fake aspirano invece a far diventare il personaggio uno specchio di sé, pratica miserrima). La supportava il carisma e la alonava l’aura, che non è cosa che si possa infingere.

Ma a fare da piedistallo alla Diva c’era una sbalorditiva commistione di virtù regalate dal Cielo e di virtù conquistate con la volizione. Nacque e debuttò tutta armata come Minerva dalla testa di Giove: mostrava subito un timbro personalissimo, luminoso e penetrante, una dizione perfetta, un’intonazione senza fallo, un’estensione e soprattutto un’omogeneità nell’estensione impressionante, uno sprezzo del pericolo che la portò a far presto ruoli come Lucia, Gilda, Violetta, Cio-Cio-San in grandi sedi e, anche in disco, con grandi direttori. A trent’anni era già uno dei soprani maggiori del mondo. Tutto questo rappresentava però il punto di partenza, non il punto d’arrivo della sua arte.

Il punto d’arrivo è qualcosa cui partecipano istinto, razionalità, intuizione: è la capacità di indagare la scrittura musicale, nel rapporto tra altezza delle note, fonema, parola, significazione drammaturgica, ritmo, accento, con una profondità inimmaginabile. In tutte le parti interpretate, soprattutto nella maturità della carriera, Renata Scotto sapeva scendere nell’abisso del personaggio e trarlo alla luce. In disco ha registrato due volte Madama Butterfly: la prima, nel 1966 con Barbirolli, è una meraviglia di freschezza, spontaneità e tecnica vocale; ma la seconda, nel 1977 con Maazel, è una lezione di analisi del testo, di teatralità, di psicologia, che non finisce di stupefare. Ogni minima cellula del discorso musicale è cesellata e illuminata dal genio dell’interprete, dalla fantasia e dall’intelligenza. E questo avveniva con Norma, con Lady Macbeth, con Adriana, con Mimì e con Musetta, ma anche con la Marescialla e con Kundry e in ogni dove, fino a Somewhere Over the Rainbow, il bis preferito, quello in cui le riappariva sul volto il sorriso da bimba birichina.

Francesco Maria Colombo