La dolce immediatezza di Massenet

La dolce immediatezza di Massenet

Debutto alla Scala per il direttore d’orchestra francese, al lavoro su una scrittura musicale in cui il mondo di Goethe viene filtrato dallo sguardo di Massenet

Altinoglu

Direttore musicale della Monnaie di Bruxelles, Alain Altinoglu debutta sul podio della Scala con uno dei titoli cardine del repertorio francese di fine Ottocento.

 

LC Per entrare subito nel vivo, cosa prova un direttore come lei, che pure ha già diretto le più grandi orchestre del mondo, a debuttare alla Scala?

AA Che dire, la Scala è un teatro leggendario! Tutti noi, ovunque e da sempre conosciamo il Teatro alla Scala e la sua storia. Quindi, felice ed eccitato di essere qui, naturalmente. Con in più un sentimento di grande curiosità, il desiderio di conoscere e di addentrarmi in un luogo dove sono passati i più grandi direttori d’orchestra, alcuni dei quali francesi. Penso a Georges Prêtre, ad esempio. E penso anche alla coincidenza: Prêtre è un direttore che ho conosciuto, con cui ho lavorato e, al tempo stesso, è colui che ha diretto il Werther di Massenet l’ultima volta in cui è stato messo in scena qui alla Scala, nel 1980. E ora il testimone passa a me: come potrei non essere eccitato. Anche perché credo che il mio ruolo di direttore d’orchestra qui, a Milano, sia soprattutto quello di trasmettere qualcosa dello “stile francese”: qual è il modo di suonare, di cantare in francese.

 

LC Lo stile francese, certo, a maggior ragione attraverso un capolavoro come Werther. Ma allora Goethe dove lo mettiamo? Glielo chiedo perché una delle critiche consuete a questo repertorio francese del secondo Ottocento è quella di aver “sfruttato” i grandi capolavori della letteratura europea (Faust, Hamlet, Werther) operandone però una drastica semplificazione. Lei cosa ne pensa? Che comunque la musica operi una compensazione, apportando un livello diverso di complessità, o addirittura che il Werther di Massenet sia qualcosa di completamente differente da quello di Goethe, ma ugualmente geniale?

AA Credo che il livello di complessità di un’opera come Werther stia anche nell’incontro tra due mondi: il mondo tedesco, certo, però visto dai francesi. Un po’ come accade con la Carmen di Bizet, dove c’è il mondo spagnolo ma filtrato dallo sguardo francese. In particolare, Massenet è un compositore molto attento ad adattare il proprio vocabolario musicale all’ambientazione dei libretti e delle loro fonti. Per esempio, quando scrisse Thérèse, un’opera sulla Rivoluzione francese, egli introdusse un clavicembalo in orchestra; così in Werther lasciò trasparire l’allusione all’ambiente tedesco attraverso una scrittura ricca di cromatismi, ovvero attraverso ciò che per l’epoca era un segnale inequivocabile, visto che faceva subito pensare a Wagner. Un altro livello attraverso cui guardare l’opera è poi la forte risonanza tra la vicenda di Werther e la vita personale di Massenet in quel periodo, la crisi del rapporto con la moglie, le sue vicende extraconiugali e forse, più in generale, il suo riconoscersi in una certa energia dolorosa, in certi tratti melanconici del protagonista. Tanto è vero che fu molto dispiaciuto del fatto che all’inizio non si volle rappresentare la sua opera in Francia, forse anche a causa della matrice tedesca del libretto (del resto, tra Francia e Germania in quel periodo non correva buon sangue).

 

LC E lei cosa ama di Werther?

AA La capacità di comprensione psicologica dei personaggi. E poi l’efficacia drammaturgica: il modo con cui la vicenda si evolve, attraverso un gioco di tensioni, distensioni, svolte improvvise, che fa sì che il percorso drammaturgico sia molto ben costruito, un po’ come era capace il grande Verdi. Quanto all’introspezione psicologica, per me, per la mia mente francese, in definitiva ciò che amo è quel tipo di semplicità (che non vuol dire semplificazione), di immediatezza che Massenet riesce sempre a ricavare: i sentimenti che vanno dritti al cuore.

 

LC A proposito dei due mondi, francese e tedesco: lei ha diretto il capolavoro di Massenet al Metropolitan, avendo come protagonista Jonas Kaufmann, ovvero colui che ha affrontato il ruolo del protagonista nell’ottica di un romanticismo tedesco radicale: Werther il solitario, il nichilista, il déraciné.

AA Per forza, Jonas (Kaufmann) è tedesco! Durante le prove al Metropolitan lui e io abbiamo parlato molto di questi aspetti, naturalmente, e la cosa ha funzionato alla grande. Qui a Milano ci sarà invece uno splendido interprete francofono come Benjamin Bernheim e, altrettanto naturalmente, cambierà qualcosa nello spirito del personaggio. Il ruolo di un direttore d’orchestra è anche quello di supportare, di aiutare i diversi cantanti, si tratti di Jonas o di Benjamin. Sa, è un po’ come quando dirigi Werther a New York piuttosto che a Milano o a Parigi o a Berlino. Anche le orchestre sono diverse e noi direttori dobbiamo tener presente i colori che offrono i musicisti per poi cercare di essere il più vicino possibile a quello che voleva Massenet. La cosa vale a maggior ragione con i cantanti.

 

LC Cioè l’immagine del personaggio si costruisce attraverso l’interazione tra l’interprete e il direttore d’orchestra. E allora, continuando la rete delle interazioni, qual è la sua idea del rapporto tra direttore e regista?

AA Qui alla Scala lavorerò per la prima volta con Christof Loy e sono molto contento di poterlo fare. Perché Loy è un regista che rispetta il libretto (anche se è un po’ buffo dirlo oggi, ma abbiamo sempre più registi che ignorano i desideri del compositore), che vuole veramente aderire al libretto e che è molto interessato alla psicologia dei personaggi. Sono sicuro che, insieme, costruiremo una collaborazione importante tra direzione musicale e messa in scena. Anche perché Loy è molto attento alle mie osservazioni (se dico che un cantante è troppo vicino o troppo lontano), insomma, a quanto la prossemica incida sulla resa musicale.

 

LC Al contempo, però, Christof Loy è un regista che dà una forte impronta personale alla messa in scena, che ritiene che la regia sia in primo luogo un atto interpretativo.

AA Certo, ed è giusto che sia così. Non vorrei essere frainteso: quando parlo del rispetto del libretto, non intendo il mantenimento dello stesso periodo di ambientazione, oppure l’adesione letterale alle didascalie. Tutto questo non ha importanza. Intendo il rispetto delle relazioni che esistono tra i personaggi. Per schematizzare: non si può fare una Traviata dove alla fine il soprano è vivo e il tenore muore, oppure una Carmen dove è Carmen a uccidere Don José. Ecco, rispettare il rapporto tra i personaggi, quello che dicono e le sensazioni che comunicano al pubblico: questo è importante. Dopo di che, si possono fare tutte le trasposizioni e i cambiamenti.

 

LC Chiarissimo. E come è invece lavorare con un regista come Romeo Castellucci, con cui ha messo in scena le prime due tappe dell’Anello wagneriano alla Monnaie?

AA Quella di Romeo è una creazione di tipo simbolico, perché non lavora sulla psicologia dei personaggi, ma lascia loro un’immagine. Funziona bene con il teatro di Wagner, per il quale va trovato di volta in volta un immaginario inedito. Questo è ciò che mi piace del mio lavoro: cambiare metodo, cambiare approccio nel rapporto con i registi, a seconda del tipo di repertorio affrontato.

 

LC Torniamo ancora a Massenet. Sappiamo che nell’opera francese, almeno a partire da Gounod, c’è una riscoperta della relazione intima, profonda, tra la musica e la sonorità della lingua. Questa lingua francese, così diversa dall’italiano, con le sue accentuazioni deboli, la sua fluidità, la ricchezza delle sue nuances. Come lavora con i cantanti da questo punto di vista?

AA È un lavoro importantissimo, fondamentale. Soprattutto calcolando che Massenet è uno dei compositori francesi più attenti alla musica della lingua e più precisi nell’indicare in partitura come vuole che si pronunci quella data frase, quella singola parola. Il desiderio di Massenet era molto sentito anche dal pubblico francese, anzi potremmo dire che la Francia è il Paese dove più conta il suono della lingua.

 

LC “La grana della voce”, come diceva Roland Barthes.

AA Esattamente. Dopo di che, in questa produzione scaligera del Werther, lavoro con due tipologie di cantanti. Ci sono i cantanti madrelingua o francofoni che pronunciano molto bene il francese, penso a Benjamin, ma anche a Jean-Sébastien Bou e a Rodolphe Briand. E poi ho i cantanti stranieri, con cui non faccio lo stesso lavoro perché prima dobbiamo sistemare il quadro generale e poi andare nei dettagli, cercando di avvicinare la loro pronuncia quanto più possibile a quella dei francesi.

 

LC Per concludere, vorrei chiederle qualcosa sulla sua molteplice attività. Lei è il direttore artistico del Teatro La Monnaie, dirige nei maggiori teatri d’opera ma si dedica anche al repertorio sinfonico, si rivolge all’opera contemporanea, così come alla musica vocale cameristica. Come entrano queste diverse esperienze le une nelle altre?

AA Ci vuole molta organizzazione per tenere assieme tutti questi ambiti, ma ormai non riesco più a immaginare la mia vita professionale senza il repertorio operistico o senza quello sinfonico, specie adesso che sono anche il direttore della Frankfurt Radio Symphony. Quanto alla musica cameristica, l’opera è piena di passaggi cameristici, basti pensare a Werther e ai tanti momenti di emersione del singolo strumento. Inoltre, lavorare stabilmente sia in Belgio sia in Germania mi consente di conoscere fino in fondo le sonorità delle diverse orchestre. Per esempio, il Belgio è un Paese tra Francia e Germania, all’inizio non sapevo se ci fosse un suono “belga”, poi ho scoperto che è veramente una via di mezzo, dove gli archi non sono compatti come in Germania ma neppure leggeri…

 

LC E l’orchestra per eccellenza italiana, quella del Teatro alla Scala?

AA Si sente subito quando suona l’Orchestra della Scala, è inequivocabile nel modo di fraseggiare, di “attaccare” il suono. Anche per questo sono veramente entusiasta di lavorare qui a Milano, per vedere come si può far incontrare questa meravigliosa Orchestra con la musica francese.  Faccio solo un esempio: Massenet conosceva molto bene l’italiano, è vissuto due anni a Roma, a Villa Medici, e in Werther ci sono diversi passaggi con uno schema di versi che ricordano Puccini: però questi passaggi non devono essere suonati “alla Puccini”, ma come musica francese. Al tempo stesso, se è giusto far incontrare l’Orchestra della Scala con il gusto francese, è altrettanto giusto se non più importante mantenere e valorizzare l’identità di ogni orchestra, specie in questo periodo di globalizzazione.

LC Dunque la “grana della voce” vale per tutti, la si potrebbe usare come metafora della volontà di non cedere all’omologazione.

AA Esatto, la grana della voce!

Laura Cosso
Esperta di musica francese dell’Ottocento, ha dedicato due libri a Hector Berlioz, di cui è considerata una tra i maggiori specialisti italiani. Docente di arte scenica presso il Conservatorio di Milano, negli ultimi anni si è dedicata in particolare alla regia operistica