Lo spazio aperto di Mahler

Lo spazio aperto di Mahler

Daniele Gatti, che torna alla Scala per dirigere la Nona Sinfonia di Mahler, racconta come dal suo punto di vista la musica del compositore austriaco lasci uno spazio più ampio al sentimento degli interpreti

daniele gatti

È stata proprio la Nona la prima sinfonia di Gustav Mahler diretta da Daniele Gatti alla Scala, per un concerto del 2006 nella stagione della Filarmonica. Quest’anno il direttore milanese affronta di nuovo con l’Orchestra della Scala uno dei massimi capolavori sinfonici di tutti i tempi.

 

CT Se posso rivolgerle una domanda personale: a quando risale il suo primo incontro con Mahler?

DG Negli anni Settanta ero studente di conservatorio. Mio padre, che aveva anche studiato canto, era un grandissimo appassionato di musica lirica e musica sinfonica. E a quell’epoca amava molto, dopo cena, ascoltare la filodiffusione. Quando ascoltava qualcosa che non conosceva ne prendeva nota e comprava il disco. Mahler lo aveva scoperto così: era rimasto molto colpito dalla sua musica e aveva iniziato ad acquistare i suoi dischi. Quando comprava un disco nuovo lo ascoltavo con lui, per una tradizione tutta nostra; è così che a tredici, quattordici anni ho scoperto Mahler. Ero molto giovane, ma ricordo una Prima Sinfonia diretta da Bruno Walter di cui ho ancora il disco, una Quarta diretta da George Szell... In conservatorio i compositori che mi erano più vicini erano quelli che suonavo al pianoforte, Beethoven, Chopin, Mozart; ma l’apertura verso il mondo sinfonico è merito dell’attivismo di mio padre. Grazie a lui ho potuto ascoltare e conoscere in età così giovane anche Bruckner e Strauss.

 

CT Per alcuni grandi direttori del passato, la Nona di Mahler ha rappresentato un po’ un punto d’arrivo, un approdo preceduto da un lungo processo di maturazione. Ritiene che anche per lei si possa dire la stessa cosa?

DG Ricordo che il maestro Giulini mi disse, una volta, che anche una sinfonia molto semplice può essere estremamente impervia. Ci sono composizioni che, collocandosi in un momento particolare della vita di un compositore, richiedono un atteggiamento straordinariamente rispettoso prima di essere proposte e affrontate da un direttore d’orchestra. Ricordo con molto piacere che il mio primo incontro con la Filarmonica della Scala avvenne nella primavera del 2006, proprio con la Nona di Mahler.

 

CT Rispetto a quegli anni, il suo approccio interpretativo è cambiato?

DG Tutto è sempre un po’ in movimento: la vita ci porta a cambiare, a maturare, quindi ad avvertire ogni volta ˗ e non solo per le grandi composizioni ˗ un senso di novità. Cambia anche il nostro modo di studiare: mi capita di riacquistare partiture nuove, perché sulle vecchie vedo segni che oggi non mi dicono più granché, e preferisco ripartire dalla pagina bianca, ricominciando da capo. Ci sono brani particolari che ti rimangono nel sangue e che poi “ribollono”. E quando si riapre una partitura, quando si leggono libri che vanno a supporto di un mero studio tecnico e musicale, entra in gioco anche l’età, non è vero? La vita che vedevo a 35 anni non è più la vita che vedo oggi, a 62. Cambiano le decisioni, la scelta di certi tempi anziché di altri, la preferenza per un colore o un fraseggio di un certo tipo, insomma tutto quanto è legato al percorso di un musicista.

 

CT Mahler, come sappiamo, ha sempre cercato di evitare un’interpretazione contenutistica delle sue sinfonie: eliminando, per esempio, le note esplicative che lui stesso aveva scritto per i suoi primi lavori sinfonici, e confidando che ci si potesse affidare solamente alle suggestioni della musica. Ma per la Nona abbiamo l’interpretazione di Alban Berg ˗ il cui punto di vista era certamente vicino a quello di Mahler ˗ che parla di una sinfonia concentrata sul presentimento della morte. Sembra anche a lei che questo sia l’elemento più caratterizzante della Nona?

DG Sappiamo che Berg amava particolarmente il primo movimento, che descriveva come il più potente tra quelli scritti da Mahler in tutte le sue sinfonie. Devo dire di essere d’accordo con lui, per quanto possa valere il mio parere a confronto di quello di un gigante della musica. Non dimentichiamo che Mahler non ha potuto né provare né eseguire questa sinfonia; non ha potuto perciò rivederla dopo una prima esecuzione, com’è invece avvenuto regolarmente per le altre sue composizioni sinfoniche. Il caso della Settima, oggetto di enormi cambiamenti tra la prima stesura e la prima esecuzione e oltre, ci mostra un compositore pieno di dubbi; a Praga, angosciato dall’insicurezza, ritirava dai leggii le parti orchestrali dopo le prove e le portava con sé in albergo per correggerle. Nella Nona, Mahler non ebbe la possibilità di apportare correzioni. Mi chiedo, per esempio, se avrebbe modificato le ultime due battute del primo movimento, dove fa eseguire una nota acuta all’ottavino e un suono armonico ai violoncelli, creando un serio problema per l’intonazione. O se nella lunga e quasi spettrale cadenza del flauto e del corno soli, punteggiati dai bassi ˗ la pagina più enigmatica della sinfonia, che arriva quasi inaspettata ˗ Mahler abbia annotato una semplice traccia o abbia realmente voluto rendere misterioso il passaggio. È difficile dire se nella Nona si senta aleggiare la morte. Certo la struttura dei quattro movimenti ricorda la Patetica di Čajkovskij, dove il senso della morte è molto presente.

 

CT Un’altra questione pone problemi di esegesi: nella Nona, accanto al presentimento della morte c’è l’elemento ironico tipico delle sinfonie mahleriane, cioè le citazioni, le reminiscenze di repertori popolari o addirittura volgari ˗ le fanfare, le danze, i motivi infantili, le marce funebri ˗ ma anche la deformazione stilistica dei valzer viennesi o del Ländler con gli accenti ritmici spostati. Che significato possono avere queste presenze “fuori contesto” in una sinfonia come la Nona?

DG Sono elementi tipici di questo compositore, che comunque si indirizza verso una scrittura che diventa sempre più musica pura. Se la Prima Sinfonia ha una sua teatralità, e lo stesso si può dire della Terza, dopo la Quarta Mahler si avvia verso un linguaggio di maggior purezza musicale. Così è difficile rintracciare una sorta di teatralità nelle pagine della Nona Sinfonia.

Tornando alla Prima, senza che si possa parlare di un superficiale descrittivismo musicale, ci sono nel primo movimento una spinta, un accelerando musicale che arriva all’esplosione come di primavera, la danza collettiva del secondo, e poi la marcia funebre. Elementi che escono dalla categoria della musica pura e riferita a se stessa, per portare all’interno di una sorta di teatralità. Forse la svolta avviene proprio con la Settima Sinfonia, che risulta ancora oggi per tutti noi la più enigmatica, la più ostica, quella per la quale si fatica a trovare una strada interpretativa. Dal punto di vista del linguaggio è quella che porta improvvisamente verso quanto poi la scuola di Vienna farà suo, la somma degli intervalli di quarta che prelude alla dodecafonia e apre un mondo nuovo.

 

CT In cosa consistono le maggiori difficoltà per un direttore che affronta una sinfonia mahleriana?

DG È laddove Mahler scrive tutto ciò che vuole, che le cose diventano più difficili. Accade per esempio quando ti dà l’indicazione per scegliere il tempo di un movimento: a volte è talmente ricco e ti lascia una tale libertà, il margine per l’interpretazione è talmente ampio, da metterti in difficoltà. Cosa significa Allegro, non troppo, ma con passo cadenzato? Ovvio che poi le risposte vengano anche dalla musica, dalla sua pulsazione interna. Ma è anche vero che alcune “forzature” possono portare a una lettura musicale ricca di tensione. Per la difficoltà di interpretare ciò che forse non è interpretabile, il direttore d’orchestra, se ritiene di avere compreso un messaggio all’interno della partitura e forza i tempi in un senso o nell’altro, ha bisogno dell’aiuto del pubblico ˗ che non è passivo e si aspetta una lettura di un certo tipo ˗ per percorrere un cammino che altrimenti si fa molto arduo. Le indicazioni di Mahler sono difficilmente interpretabili perché ognuno di noi ha un suo senso etico e musicale, in base al quale un aggettivo gli può dare un’idea di quel passaggio: la difficoltà maggiore sta quindi nella massima libertà che apparentemente ci è concessa, e che ci costringe a essere sempre in dubbio con noi stessi.

 

CT Come si conciliano, alla luce della sua esperienza internazionale, il suono e l’approccio esecutivo delle orchestre italiane a un repertorio, come quello mahleriano, che sembra piuttosto lontano dalla loro tradizione? Si rilevano difficoltà particolari di realizzazione pratica, sul piano tecnico o su quello interpretativo?

DG No, a mio parere. L’ultima orchestra italiana con cui ho eseguito Mahler è stata l’Orchestra Rai di Torino, nel gennaio del 2020: si trattava proprio della Nona Sinfonia. Ho diretto anche altre sinfonie mahleriane con le orchestre di Firenze e di Santa Cecilia a Roma. Le orchestre italiane hanno ormai Mahler in repertorio, e per quanto riguarda la questione del suono (importante, ma sulla quale sono sempre molto scettico), una grande orchestra lo “modula” in funzione di un’esigenza espressiva. I Wiener hanno consolidato il loro suono mahleriano grazie allo sforzo di Leonard Bernstein negli anni Sessanta; abbiamo il suono del Concertgebouw, dove Mahler stesso è andato a “seminare” eseguendo musiche sue; abbiamo il suono della New York Philharmonic, con cui Mahler ha lavorato negli ultimissimi anni della sua vita. È un compositore che può essere eseguito benissimo da orchestre diverse perché dà la possibilità di una libera interpretazione del segno e dell’andamento; ogni direttore, ogni orchestra, ogni solista si sente un po’ più libero. Ecco perché per dieci esecuzioni abbiamo dieci impronte diverse. Posso permettermi di dire che dal punto di vista stilistico Mahler è un compositore che non ha uno stile. Noi siamo un po’ ingessati quando eseguiamo Haydn, Mozart, Beethoven, un po’ più liberi nel fraseggio quando eseguiamo Brahms o una sinfonia di Schumann: ma con Mahler abbiamo l’impressione che al nostro sentimento sia lasciato uno spazio più ampio. Che va comunque guidato all’interno di un’idea interpretativa, cioè di un progetto.

Claudio Toscani