Sessantatré Callas, una sola Violetta

Sessantatré Callas, una sola Violetta

Francesco Vezzoli è un artista che ha molto riflettuto sul rapporto tra arte e vita di alcune celebrità, tra cui Maria Callas, rappresentata sessantatré volte in un’opera esposta nella mostra “Fantasmagoria Callas”

Mostra Callas

Il volto di Maria Callas ripetuto per sessantatré volte, un’interpretazione dopo l’altra, personaggio dopo personaggio, per Francesco Vezzoli rimane sempre e comunque il volto di Violetta, anche quando il trucco richiamerebbe Cio-Cio-San o Turandot o una sacerdotessa del melodramma di inizio Ottocento. Maria Callas played “La traviata” 63 times, del 1999, è una delle opere esposte nella mostra “Fantasmagoria Callas” (al Museo Teatrale alla Scala fino al 30 aprile 2024) e ben rappresenta la riflessione dell’artista sul rapporto tra la donna Callas e la diva Callas.

 

MP In questo suo lavoro sembra quasi che Maria Callas venga disgregata in tante istantanee diverse. Perché la sua riflessione artistica l’ha portata a occuparsi di lei?

FV Perché Maria Callas rappresentava l’apice di uno studio che in quel periodo stavo conducendo sull’iconicità femminile. Si andava da Silvana Mangano, a Joan Crawford, Gloria Swanson e Greta Garbo, a tante altre. Callas era l’artista che esemplificava nella maniera più alta le questioni che mi interessavano allora: la relazione tormentata tra identità pubblica e vita privata. La tecnica del ricamo di cui mi sono servito va considerata come il filo che lega molto fragilmente queste due dimensioni, che difficilmente si possono ricomporre.

 

MP Il ricamo caratterizza molto il suo lavoro di quegli anni. Che legame c’è tra la più sofisticata delle dive, musa di Visconti e di Pasolini, e questa attività che invece ha qualcosa di più tradizionale?

FV In realtà molte delle grandi dive di Hollywood nei tempi morti del set ricamavano a piccolo punto. Si tratta di una pratica che impone una prossemica del corpo in qualche modo fetale: mentre ricamano queste dive si richiudevano su loro stesse, ritrovando quell’intimità, quella protezione che, con la fama, avevano perduto. Chi è famoso come era famosa Maria Callas deve trovare il modo di schermarsi. Si arriva così a questi due momenti opposti: da una parte il grande soprano che canta su un palcoscenico davanti ai capi di Stato, con il pubblico letteralmente in delirio per lei, dall’altra una pratica domestica e solitaria come il ricamo.

 

MP Ci spiega il titolo della sua opera?

FV Mi ha sempre impressionato il fatto che la vita sentimentale di Maria Callas avrebbe potuto essere scritta da Dumas. Anche se lei ha interpretato molte altre opere: Tosca, Norma, Sonnambula, però per me lei rimane Traviata, per la parabola della sua sofferenza d’amore, oltre che per la sua morte sopraggiunta per una fragilità non solo fisica ma anche emotiva. Quindi Maria Callas è sempre La traviata, anche in tutte le immagini di opere che non sono Traviata. Del resto, La signora delle camelie è forse il testo dove è più evidente il conflitto tra i doveri della propria identità sociale e una pulsione amorosa autentica. Questo conflitto mi sembra molto presente nella vita di Maria Callas.

 

MP C’è qualcosa di personale che l’ha attratta alla figura di Maria Callas?

FV Ciò che più mi turba della sua figura è proprio il suo percorso emotivo e amoroso. Penso al fatto che questa donna a un certo punto ha pagato un prezzo enorme alla propria carriera, privandosi di un’autenticità di sentimenti. Quando poi decide di amare veramente, incontra Onassis e si innamora del suo potere, così come Onassis si innamora del potere di Maria Callas. È una meccanica di narcisismo: il potere che si auto riflette, un po’ come in tempi recenti è accaduto con la coppia Pitt-Jolie. Si tratta di un’alchimia sempre potenzialmente esplosiva. Senza entrare nei dettagli, posso dire che anch’io in una brevissima fase della mia vita ho pensato che l’amore consistesse nell’incontrare una persona assolutamente riflettente.

 

MP Secondo lei è questo che ha trasformato Maria Callas in un’icona queer?

FV Feci una conferenza una decina di anni fa insieme a Wayne Koestenbaum, uno dei maggiori teorici del legame tra opera e iconografia queer (suo è il saggio The Queen’s Throat: Opera, Homosexuality, and the Mystery of Desire); fu un dibattito molto piacevole. Penso sia molto divertente vedere come comunità diverse si contendano l’amore assoluto verso Maria Callas. Secondo me lei sarebbe stata molto inclusiva, avrebbe semplicemente pensato, con molta praticità: “Se tutti mi amate e mi idolatrate, va bene così”. A ben vedere però le dinamiche della privazione rispetto alla propria vita sentimentale accomunano tutti. Non c’è dubbio che sia stato un tema decisivo per la comunità gay del Secondo Dopoguerra, però vale lo stesso per la comunità femminile, o anche, perché no, per una comunità maschile eterosessuale. Insomma, la voce di Maria Callas è un inno ai sentimenti, qualcosa di liberatorio in cui tutti si riconoscono.

 

MP Abbiamo detto che Maria Callas è un’icona, forse possiamo addirittura dire un’icona pop, tenuto conto che anche Warhol si è servito della sua immagine per il suo lavoro. Secondo lei la forza delle interpretazioni di questa artista riesce a vincere il grande rumore mediatico che ha generato?

FV Io penso che gli artisti che usano la propria voce come strumento abbiano un vantaggio in più rispetto a tutti gli altri, perché nel loro caso rimane la testimonianza viva del loro talento e delle emozioni che hanno generato con le loro virtù, con la loro grandezza. Penso a tutte le registrazioni di Maria Callas: dalle interviste alle sue performance. Mi viene in mente una grande artista contemporanea come Marina Abramović, forse la più grande performing artist femminile dal Secondo Dopoguerra. Il giorno in cui Marina non sarà più attiva, rimarranno comunque i suoi video e tutto ciò che di fisico ha compiuto. Per rispondere, personalmente non potrei mai vivere Maria Callas come un santino. Maria Callas per me è viva.

 

MP In che senso?

FV Ascoltando la sua voce oggi possiamo ancora provare le emozioni di allora. Certo, non abbiamo la fortuna di essere in uno di quei palchi, di vederla recitare con Luchino Visconti nascosto dietro a una quinta e Gianandrea Gavazzeni sul podio. Però l’emozione ci arriva comunque.

 

MP In effetti sono pochissimi i cantanti che, come Maria Callas, si riconoscono appena parte una registrazione. Cosa vuol dire secondo lei dal punto di vista artistico questa riconoscibilità?

FV Credo che nasca dalla sua eccezionalità vocale. Ma poi bisogna considerare la accuratissima costruzione di questa sua eccezionalità: non penso solo alla sua presenza scenica, ma alla sua presenza, diciamo, culturale. Quelle di Callas sono state tutte scelte molto precise e mai casuali, come avviene con le persone destinate a costruirsi un’identità pubblica. Maria Callas ha fatto qualcosa di più: ci ha lasciato una testimonianza del suo rigore. Se per esempio ascoltiamo le registrazioni della sua masterclass alla Juilliard, non percepiamo nulla della Callas mondana che ci è stata tramandata, quella che va dalla Biki a provare vestiti e fa delle scene isteriche da diva, che probabilmente non ha mai fatto. Sentiamo una donna molto pratica e attenta alla qualità del suo lavoro. Lo stesso si può dire quando si guardano le famose interviste fatte nella sua casa di Avenue Mandel, dove parla soprattutto di tecnica vocale. Insomma, Maria Callas era innanzitutto una professionista serissima, totalmente concentrata sulla propria arte, e nella sua vita ha dato molto più peso a questo che alla sua immagine. Poi certo c’erano quelli che volevano vestirla, ma non mi immagino che passasse le nottate a pensare a quale vestito si sarebbe messa il giorno dopo. In fondo non possiamo dire che i grandi stilisti dell’epoca abbiano fatto a gara per vestirla.

 

MP Lei ha realizzato anche altri lavori su Maria Callas, come Prima Donna con il musicista Rufus Wainwright.

FV Ho realizzato un film da trasmettere durante l’esecuzione musicale dell’opera di Rufus. L’aspetto più difficile è stato scegliere l’interprete giusta per Maria Callas. Il mio sogno era coinvolgere Cindy Sherman: se Marina Abramović per la storia dell’arte del Dopoguerra rappresenta la performance, Cindy Sherman rappresenta l’appropriazione dell’identità. Dovendo pensare a una appropriazione di una personalità così grande, ho pensato che solo lei ci sarebbe riuscita. Alla fine Cindy ha accettato e si è lasciata vestire e truccare da me. È stato un sogno: per un attimo mi sono sentito un po’ Visconti anch’io.

Mattia Palma