Sognare Turandot

Sognare Turandot

Una nuova produzione di Turandot va in scena alla Scala per il centenario pucciniano con la messinscena di Davide Livermore, la cui riflessione si concentra sugli archetipi che i personaggi di questa fiaba rappresentano

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Il primo Puccini messo in scena da Davide Livermore alla Scala è stata la Tosca inaugurale del 2019: la drammatica brutalità tra il realistico e il trasognato di quell’allestimento rendevano omaggio a uno dei primi capolavori della modernità (simbolica la data della prima, 14 gennaio 1900). Cinque anni dopo siamo a Turandot, estremo capolavoro del melodramma non solo pucciniano, “quasi il Requiem di un genere”, secondo il regista, che ci porta nel tempo remoto delle favole in cui, tuttavia, non sarà difficile riconoscersi. In entrambi i casi protagonista-idolo è Anna Netrebko.

MATTIA PALMA La sua storia personale con Turandot non inizia certo con questa produzione.

DAVIDE LIVERMORE Dobbiamo risalire alla mia infanzia, quando mi imbattei in quella che per me è la più bella Turandot di tutti i tempi: Nilsson, Corelli, Scotto all’Opera di Roma diretti da Molinari Pradelli. Quasi di nascosto mi chiudevo in camera e mettevo il disco nel mio Lesaphon modello Sagittario del 1960. E cantavo tutti i ruoli, soprattutto quello di Liù, un po’ perché era perfetta per la mia tessitura di allora, un po’ perché i suoni filati della signora Scotto mi sembravano dei regali all’umanità. Gli altri rimanevano sempre un po’ perplessi, dicevano che sì, la musica era bella, ma non si capiva una parola, e io mi chiedevo come potessero pensare una cosa del genere di Corelli e di altri artisti di quel livello inarrivabile…

MP Ma in Turandot lei ha anche cantato.

DL Ho fatto sia Pong sia Pang. Sono molto legato a una mia esperienza al Regio di Torino del 1997. Dirigeva John Mauceri, Turandot era Alessandra Marc e Calaf Keith Olsen. Ping era José Fardilha, cantante magnifico, poi diventato compagno di Sara Mingardo: di lui ricordo una mamma Agata di raro divertimento nelle Convenienzeed inconvenienze teatrali di Donizetti. Pong invece era Alessandro Cosentini, carissima persona che purtroppo non c’è più da tanti anni. Io facevo Pang. Ci furono degli episodi memorabili. Durante una pausa la cover di Turandot venne a rimproverarci, a suo dire non facevamo abbastanza teatro, mentre le maschere sono il teatro. Quando però il direttore di palcoscenico, Vittorio Borrelli, fece riprendere la prova, lei iniziò il suo “Straniero ascolta” indicando nel vuoto, senza rendersi conto che Calaf era esattamente alle sue spalle. Fu un momento esilarante, quasi non riuscimmo ad andare avanti. Ma a parte questi momenti buffi rimasi colpito dal magnifico spettacolo di Zhang Yimou, che spesso ho sentito liquidare come “ristorantone cinese”. E invece è proprio lì che ho imparato qualcosa che ancora ritengo fondamentale: il rigore. In uno spettacolo si possono mettere moltissime cose, ma solo se sei capace di organizzarle riesci a dare un’idea di coerenza, di etica mi verrebbe da dire.

MP In questa produzione lei è alla ricerca di un altrove. Dove ci porta con questa fiaba?

DL Da un punto di vista visivo siamo in un universo inventato, ma con alcuni tratti riconoscibili: stampe cinesi e altri elementi che richiamano una modernità asiatica, ma allo stesso tempo voglio che si colga qualcosa di sospeso, di spiritico, di fantasmagorico. Già dal movimento dei personaggi il pubblico deve capire che si trova da un’altra parte, e questo si può trasmettere in molti modi, ma soprattutto con un’attitudine del corpo che non ha nulla a che vedere col semplice scimmiottare. Parlo della mimesis aristotelica, che è sempre un’imitazione - questo è il punto - sbagliata. Proprio dentro quest’errore si inserisce l’identificazione del pubblico, e quindi lo spostamento tra soggetto e oggetto. Altrimenti si cade nella cronaca, o peggio nel reality, dove basta fare se stessi, rinunciando a essere artisti. A teatro l’esatto e il vero non coincidono mai, e noi stiamo facendo teatro, non il Grande Fratello.

MP In particolare in un’opera come questa, in cui non si può certo parlare di verosimiglianza dei personaggi.

DL Sono piuttosto stati di coscienza, o meglio stati di evoluzione di ognuno di noi.

MP Partiamo da Calaf.

DL È il principe, è quella nostra parte che può diventare re, che è pronta per essere re. Però è ancora nello stadio del figlio, peraltro figlio di padre cieco. Perché il suo futuro Timur non lo può certo vedere, nessun padre può vedere il futuro di un figlio - e lo dico da padre. Il principe ignoto deve trovare il coraggio di seguire la sua strada, solo così scoprirà il suo nome.

MP Quindi nemmeno lui conosce il suo nome?

DL Non può saperlo, non ha ancora suonato il gong con cui scioglierà il nodo degli enigmi. Solo così libererà se stesso, oltre che Turandot.

MP Chi è quindi Turandot?

DL Un personaggio che vive nella rabbia e nel dolore dell’antenata Lo-u-Ling: è lei che la condiziona, che possiede la sua anima, che la tiene prigioniera. Come prigioniera è Liù, la schiava, e questo da un punto di vista simbolico è fondamentale perché la morte di Liù, così commovente, è in realtà una morte necessaria dal punto di vista della fiaba. Liù deve morire, deve uccidersi: ogni donna deve uccidere la schiava che è dentro di sé, per liberarsi dalle catene dei propri antenati e delle proprie costrizioni. Non sto parlando di emancipazione femminile, o almeno non per forza: è un passaggio simbolico generale, che riguarda tutti, uomini e donne.

MP Quindi è come se Turandot e Liù fossero la stessa persona?

DL Sono montate insieme, e insieme ci fanno vedere il loro cammino iniziatico, che è lo stesso che affronta anche Calaf, e che affrontiamo tutti.

MP Ping, Pong e Pang che ruolo hanno?

DL Sono le voci interne di Calaf, che lo avvertono, lo incitano, a volte lo ostacolano. Freudianamente, sono le sue istanze psichiche. Vengono dalla commedia dell’arte, dalle maschere di Gozzi. Tutti noi diventiamo bidimensionali quando ci fissiamo in uno stato specifico della nostra energia, perdiamo il senso della nostra storia personale e smettiamo di guardare alla vita come a uno sviluppo. È questo lo stato di crisi in cui si trova il principe. Calaf deve vincere la sua paura di non farcela, la sua tentazione a rinunciare, a non rischiare, a non andare fino in fondo. È un personaggio che ci ricorda cosa significa essere giovani: quella gioventù coraggiosa che oggi spesso manca.

MP Di che coraggio parla?

DL Del coraggio di chiedere. È questo che in fondo fa quando suona il gong: crea le condizioni perché il suo desiderio si manifesti concretamente.

MP Parliamo degli enigmi: viene sempre il sospetto che le soluzioni in fondo siano arbitrarie, che Turandot decida secondo il suo capriccio quali risposte siano giuste e quali no.

DL Il principe di Persia avrebbe potuto dare le stesse risposte di Calaf e lei gli avrebbe comunque fatto tagliare la testa. Ma in Calaf Turandot riconosce un istinto di ricerca che nel principe di Persia mancava, perché era troppo arrogante. Ma attenzione, il Principe di Persia non è un’altra persona: siamo sempre noi, quando rimaniamo disperatamente attaccati al nostro ego. Ecco perché deve morire: per portare avanti il nostro percorso dobbiamo servirci del nostro ego per un obiettivo superiore.

MP Pare quasi che il pubblico debba identificarsi in tutti i personaggi.

DL Mi viene in mente un episodio memorabile di Muhammad Ali, ormai con il Parkinson mentre regge la fiaccola alle Olimpiadi di Atlanta del 1996. Fece un unico discorso, tutto tremante. Disse: “Io, voi”. È esattamente ciò che avviene quando guardiamo questi personaggi: dobbiamo dire sempre “io, voi”, come nei sogni, in cui non ci si identifica mai con un unico personaggio, perché in realtà siamo in tutti gli elementi archetipici del sogno.

MP Entriamo così in una zona più junghiana che freudiana.

DL Credo che questa sia l’opera più junghiana che esista. Una favola come Turandot non rientra in grammatiche comportamentali da teatro borghese.

MP E cosa ci dice del finale?

DL A me il finale di Alfano non dispiace per niente, ed è fondamentale farlo. Non lo dico solo da musicista, ma perché è drammaturgicamente necessario. Finire con la morte di Liù sarebbe sbagliato, vorrebbe dire rinunciare alla speranza, che è la chiave di questa storia.

MP E perché Puccini si è fermato?

DL Perché era malato. E forse perché per lui il suo cammino di iniziazione era compiuto. Ora tocca a noi suonare il gong, risolvere gli enigmi, uccidere la nostra parte di schiavitù e fare i conti con i nostri fantasmi dolorosi.

Mattia Palma