Un teatro di dettagli

Un teatro di dettagli

Christof Loy debutta alla Scala nel capolavoro di Jules Massenet tratto dal Werther goethiano ed entra nel dettaglio del suo metodo di lavoro, ereditato dalla grande tradizione teatrale tedesca degli anni Sessanta

7.6 foto per sito intervista Loy

Dimenticare Goethe? Che sia questo il presupposto di chiunque si accinga a mettere in scena il Werther di Massenet? Un’opera in cui i turbamenti del giovane che ha dato il via allo Sturm und Drang vengono filtrati, edulcorati, alcuni dicono addirittura annacquati dal clima fin de siècle in cui è nata (Courir la definì un “Tristano kitsch”). Ma per il regista tedesco Christof Loy non bisogna avere pregiudizi: nel sentimentalismo spiccio si cade solo se le emozioni vengono affrontate in modo generico. E Goethe può riemergere persino in questo drame lyrique di fine Romanticismo.

MP Questo scaligero non è il suo primo Werther.

CL Ne misi in scena un altro a Brema nel 1996. Allora l’avevo trattato quasi come un’opera da camera, non mi interessava tutto l’ambiente circostante: avevo tagliato i bambini, i paesani e altre scene d’insieme, per concentrare tutta la mia attenzione sui quattro protagonisti. Nel mondo tedesco in cui sono cresciuto quest’opera non è ben considerata, se pensiamo agli snob secondo cui solo Moses und Aron di Schönberg è musica seria. Per difendere questa musica al meglio bisogna lavorare in modo molto preciso sulla recitazione, perché solo i dettagli possono dare la qualità, altrimenti si scade nel sentimentalismo. Del resto è una cautela da osservare sempre, anche l’aria di Fiordiligi “Per pietà, ben mio, perdona” diventerebbe melensa.

MP E in che modo imposta lei questo lavoro sui dettagli?

CL Bisogna sempre chiedersi qual è l’emozione esatta che cerchiamo. Non basta dire che il personaggio è triste. Forse è triste e si sta arrendendo? Oppure si odia per il fatto di essere triste? O ancora vuole trovare una via d’uscita da questa tristezza? Sono emozioni completamente diverse l’una dall’altra.

MP Per un tedesco la figura di Goethe è un po’ come Dante per noi. Qual è il suo rapporto con il Werther?

CL Le sembrerà strano, ma io ho conosciuto prima l’opera di Massenet. Sono un tedesco atipico ˗ del resto sono atipico in molti altri sensi. Ero un ragazzino ossessionato dalla musica e mi capitò tra le mani il disco con Alfredo Kraus e Tatiana Troyanos diretto da Michel Plasson. Volli subito andarmi a leggere il romanzo di Goethe. Poi l’anno dopo l’abbiamo letto a scuola. I nostri insegnanti avevano tutti studiato nel Sessantotto e non si staccavano dall’interpretazione politica: “Werther è una vittima della società”. Fin da allora mi sembrava un po’ semplicistico, sentivo che questo personaggio, nemmeno tanto “sympatisch”, era più complesso di così. Poi certo, Werther è ovviamente anche una vittima, ma se non si adatta alla società è perché ogni società deve essere basata su regole, mentre lui è un ribelle, un piantagrane. Io tendo a difendere questo tipo di personaggi: accetto le regole, ma ammiro le persone che cercano di non ridurre gli esseri umani a un’unica norma.

MP Questo vale anche per l’opera?

CL Naturalmente. Ma in Massenet c’è anche un altro aspetto che mi interessa, a cui sono arrivato in un secondo momento, ovvero quando, esplorando di più l’opera di Goethe, ho scoperto Le affinità elettive. Avrò avuto sedici anni, e da allora è uno dei romanzi fondamentali della mia vita, che continuo a leggere e rileggere anche a distanza di anni. Se nei Dolori del giovane Werther c’è il triangolo tra Werther, Charlotte e Albert, nelle Affinità elettive le coppie sono due, quindi le possibilità esplorate nel romanzo precedente vengono ampliate. Ecco, nel Werther di Massenet l’introduzione del personaggio di Sophie porta a un quartetto tutto sommato analogo, con molte più combinazioni possibili, alcune delle quali hanno qualcosa di chimico, che non si può distruggere in nessun modo, come nel caso di Werther e Charlotte.

MP Werther appartiene alla lunga lista degli eroi “fragili” dell’Ottocento. Solo che a differenza degli altri non nasconde la sua fragilità.

CL Per me è proprio questa l’idea di eroe. Un eroe che non ha dubbi non è un eroe, è solo uno stupido. Un eroe è qualcuno che ogni giorno deve convincersi a fare qualcosa che ha paura di fare. Ma c’è di più: Werther ha anche un’energia distruttiva, per questo non rientra in nessuna categoria di ruoli esistiti prima o dopo, perché in modo inconscio lui usa la sua fragilità per ricattare emotivamente gli altri, innanzitutto Charlotte.

MP Ecco, parliamo del personaggio di Charlotte.

CL Charlotte promette alla madre morente di sposare Albert, e da quel momento diventa un vero e proprio simbolo di responsabilità: una volta che ha dato la sua parola, deve attenersi a essa, altrimenti l’intero sistema potrebbe traballare. Per dirla filosoficamente, lo vive come imperativo categorico kantiano, un’implicazione morale che deve seguire perché la società intera se lo aspetta. Nell’opera continua a ripetere che questo è il suo “devoir”, e Werther vorrebbe che lei si sottraesse alla rigidità di questo schema.

MP Nell’opera l’infanzia gioca un ruolo centrale: i cori di bambini, l’atmosfera di gioco di certe scene…Werther sogna forse di tornare bambino?

CL Il punto è che non è mai diventato adulto. In effetti è strano che in quest’opera non si sappia niente di lui, del suo passato. Si conoscono più dettagli dei personaggi minori che del protagonista. Werther potrebbe essere un bambino orfano cresciuto in una casa aristocratica. In ogni caso sembra che non abbia mai avuto idea di cosa sia avere la responsabilità degli altri. E questa è la grande differenza tra lui e Charlotte, che al contrario si sente responsabile di tutto: dei bambini, del padre vedovo, della madre di cui si è presa cura quando stava morendo. Sente il peso di tutti sulle sue spalle. Forse è per questo che è attratta dall’avventuriero privo di legami, che conta solo su se stesso: “C’est moi! C’est moi!” ripete Werther. Ma nemmeno pensare tutto il tempo a se stessi è salutare.

MP Oggi è pensabile un “effetto Werther”? Una tale identificazione nel protagonista che spinge persino all’emulazione?

CL Mi sembra che ci si possa immedesimare in tutti e quattro i personaggi, a seconda del momento che si sta vivendo, non solo in Werther. Massenet ha costruito un pezzo in cui si considera ogni tipo di relazione. È anche per questo che oggi, quasi trent’anni dopo il mio primo Werther, ritengo fondamentale la presenza in scena del resto del mondo, un intero villaggio che assiste. Perché non si possono separare i problemi di una relazione dall’ambiente in cui si vive: i conflitti si devono per lo più al fatto che ci si deve sempre riferire a un mondo esterno.

ML Nella scenografia il mondo esterno si intravvede soltanto al di là di una porta al centro di una grande parete.

CL Perché è come un Santo Graal in questa costellazione di relazioni, mi piace che sia una sorta di giardino segreto in cui tutti vorrebbero entrare. Forse persino Werther, il ribelle. Anche lui in fondo vorrebbe far parte di una società, avere una vita più stabile in cui alla fine Charlotte possa diventare sua moglie. Ma questa visione sentimentale non sarà mai la sua vita. Capita spesso di fissarsi su sogni che non potremo mai realizzare.

MP Secondo il suo metodo, fin dalle primissime prove i cantanti devono sempre essere in costume. Cosa aggiunge al suo lavoro?

CL In realtà è un’abitudine che viene dal teatro tedesco, fin dalla rivoluzione negli anni Sessanta quando Peter Stein, poi Luc Bondy, Claus Peymann e altri registi hanno iniziato a lavorare in questo modo. Allora facevo l’assistente ed era normale, sono cresciuto con questo sistema. Penso che aiuti i cantanti ad avere fin da subito il coraggio di essere un po’ diversi, senza i jeans e le sneakers. È come tornare al punto di partenza, quando si faceva teatro da bambini, ci si travestiva e immediatamente si diventava re o regine: risveglia i nostri istinti elementari. Non ho l’abitudine di usare tanti effetti nei miei spettacoli, cerco di far vedere al pubblico quello che mi interessa, al punto da dimenticarsi persino della grande star sul palcoscenico. A volte certi dettagli di uno spettacolo rimangono impressi per anni, questo significa che è stato qualcosa di più di un momento di svago. Certo, bisogna intrattenere il pubblico, ma bisogna anche insegnare qualcosa.

MP Secondo il principio brechtiano?

CL Sì, ma non solo in senso intellettuale. Anche Brecht aveva un’idea di teatro che potremmo definire più sensuale. Se devo fare un nome citerei Schiller, la sua idea di teatro come istituzione morale. O almeno, io ci credo.

Mattia Palma